Amo la parola partigiano. Credo l’avesse inventata Pietro Nenni, quando ancora povero in canna scriveva clandestinamente, traducendola dal russo Partizan.
È più bella della parola “patriota”. Perché travalica i confini. In una trasversalità di posizioni diverse, ma dentro l’arco dello stesso orizzonte, l’irrinunciabile e mai docile lotta per l’”umano”. Vorrei poter essere partigiano di un sogno. Partigiano del sogno più ampio e largo e lungo, che copre la latitudine e la longitudine di questo breve viaggio che è la vita: l’idea, certa e inviolabile e imbattibile-, che la dignità dell’uomo non è sopprimibile, mai. Né in tempo di guerra, né in tempo di vera o presunta pace. Né dentro casa, né sull’uscio fuori di casa. Né nella tua nazione né fuori della tua nazione. Ma come si fa – ad esserlo, in modo concreto, partigiani di questo sogno? Esserlo in modo che la frase stessa non sia un esercizio di neutro romanticismo, in modo tale che la parola “sogno” non rimanga in un inoffensivo alveo “new age” e di buoni sentimenti? Si può cominciare ad esserlo, credo, in due modi. Il primo è iniziare col riprenderci, e poi difendere - le parole. Le parole che ci sono state lentamente sottratte, come una mano che ci sfila il portafoglio dei pensieri, per essere cambiate e poi spese contro di noi, contro altri nostri simili, contro l’essere umano. Accade, da sempre. Ogni volta. Penso, tra i tantissimi, a tre eventi. È accaduto in Iraq. Accade ogni anno al 25 aprile. Sta accadendo ora con il Coronavirus. Che cos’hanno in comune eventi come la guerra in Iraq, il tentativo di neutralizzare il 25 aprile e l’emergenza Coronavirus, nello specifico l’uso della parola “dittatura” e le istanze del “riapriamo immediatamente tutto e subito”? L’Avvelenamento semantico. Un avvelenamento astuto, che non prende a prestito, ma ruba le parole che apparterrebbero a un orizzonte preciso, per portarle in un altro, quasi sempre opposto. E come accade questo avvelenamento dei pozzi del linguaggio? Con un graduale inquinamento da argomentazioni “di buon cuore”. Argomentazioni legate a una presunta “bontà” che sembra parlare nell’interesse di tutti. Facendo leva cioè su una nostra identificazione emotiva con parole che ci accomunano. Uno degli esempi più eclatanti: in tutte le guerre di dominio imperialista, ma soprattutto in quella in Iraq. Nata dalle menzogne di Tony Blair e G. W Bush (per le quali menzogne e conseguenti 300 mila morti mai hanno pagato) i promotori e tifosi dell’intervento bellico usavano, costantemente, questa espressione: “Guerra di liberazione”. Eccola, la parola che a tutti piace. La più prostituita, la più logora: libertà. Sino ad arrivare alla parola a lei legata: “Liberazione”. Utilizzata per compiere il suo esatto opposto, per estinguere proprio quella libertà che ci convincono di voler difendere. Ecco che la parola “Liberazione” – che assume nel suo evento più vero e reale, il 25 aprile, la sua perfetta esecuzione storica, diventa invece paravento e maschera per una aggressione bellica dalle dimensioni di un olocausto – la guerra in Iraq. Utilizzando la parola che fa leva sul cuore e sulla nozione di bene collettivo - “liberazione”, rubata dal suo etimo e capovolta, messa a testa in giù. Il fascismo che usa l’antifascismo come argomento a suo favore. Altra occasione storica, stessa tecnica: i detrattori del 25 aprile non sono pochi, e lo sono per svariati interessi tattici e politici. Anche qui, non potendo azzardare (ancora) un attacco frontale ai contenuti storici della Resistenza, fanno leva sul sentimento generico del “bene”: trasformiamo - dicono, il 25 aprile nella “festa di tutti”. Vincitori e vinti, senza divisioni. Suona bene, sembra un intento inclusivo - di “pace”. Ma che parte da un presupposto già falso: essendo (almeno sulla carta) il fascismo di quegli anni sconfitto, la festa è già di tutti: perché tutti non possiamo non dirci – antifascisti. Perché l’antifascismo è uno dei pilastri fondanti della nostra Costituzione e se è divisivo lo è sempre e solo tra chi è fascista e chi non lo è. Tra chi ha interesse a riscrivere la Storia e chi la vuole raccontare per come è accaduta. Vi è un altro modo di utilizzare il linguaggio scippandocelo. Quando proprio non si può cancellare il significato reale degli eventi, lo si attenua con l’uso di eufemismi. Un esempio, che portò mirabilmente sul palco il più grande stand-up comedian di sempre, George Carlin: c'è una condizione psicologica nel combattimento in guerra, quando il sistema nervoso di un soldato è stato stressato al suo punto massimo assoluto, e non può prendere più scosse. Il sistema nervoso al collasso. Nella prima guerra mondiale, questa condizione fu chiamata “Shell Shock”. Due sillabe, che suonano dure e brevi come il colpo di una mina che esplode. Shell Shock. Poi è arrivata la seconda guerra mondiale. E la stessa identica condizione fu chiamata “Battle fatigue”: affaticamento da battaglia. Quattro sillabe. Ci vuole un po' più di tempo per pronunciarlo, non sembra fare molto male. E "Fatica" è una parola che non punta il dito su nulla. Dopo la guerra in Corea, la stessa identica condizione, proprio la stessa, viene chiamata dagli americani "Operational exhaustion”, esaurimento da operazione militare. In inglese sono ora diventate otto le sillabe. Il senso dell’umano e del dolore cancellati dalla definizione. Passano gli anni, e durante la guerra in Vietnam, la stessa identica condizione viene chiamata "Post-traumatic stress disorder", disturbo post traumatico da stress. Il dolore è ora completamente scomparso. “Guerra di liberazione”. “25 aprile festa di tutti”. “Disturbo post traumatico da stress”. Attraverso il linguaggio, le stesse identiche cose vengono nominate diversamente, dilatate, talvolta sfigurate, in modo da rendere più digeribile per la nostra mente il loro stravolgimento. La stessa identica tecnica viene usata in questi giorni legati alla gestione dell’emergenza da Coronavirus, con l’utilizzo spasmodico della parola “Dittatura”. Per due mesi, tra mille errori e talvolta goffe dichiarazioni e approssimazioni, è però successa una cosa che non era mai accaduta da che io sono nato: la politica che antepone la salute all’economia e al profitto. Ora, proprio questa economia neoliberista che ha sulla coscienza i tagli feroci alle risorse e del personale alla Sanità, che ha schiacciato e precarizzato i diritti dei lavoratori, inquinato in modo criminoso il pianeta, finanziato colpi di stato in Sud America, questa stessa economia ora scalpita per riprendersi immediatamente la cabina di comando. Lo fa con i suoi “soldati al fronte”: Confindustria, i giornalisti, e gli intellettuali. E vuole riprendersi il comando in fretta. Magari, disarcionando il governo italiano e porvi al vertice un rappresentante ben controllabile, eterodiretto dalla finanza. Ma soprattutto, ancora una volta, usando il linguaggio. Un linguaggio che fa leva sulla legittima paura di piccoli commercianti, artigiani, operai, di quella classe medio bassa che il neoliberismo astutamente chiama all’appello quando gli serve per poi dimenticarsene a consenso ottenuto. Qual è il leit-motiv di questi giorni? L’utilizzo delle frasi #torniamoliberi e “dittatura”, legate quindi sempe alla parola piu’ prostituita e logora - “libertà”. Termini utilizzati prima a singhiozzo e ora a valanga sulla psiche di milioni di italiani già provati, esausti e impauriti dalla imminente crisi economica. I due argomenti a favore dell’uso della parola “dittatura” sono quelli delle restrizioni della libertà di movimento e della violazione della Costituzione. Ma se queste restrizioni, dettate dal preservare la salute di Tutti in un periodo di emergenza unico negli ultimi decenni - è dittatura, per paradosso è sotto dittatura ogni passeggero di ogni aereo al quale viene imposto di stare seduto e indossare le cinture di sicurezza quando l’aereo attraversa un tratto di turbolenza, forte o non forte, o in caso di problemi al velivolo? Sono dittatori tutti i capitani di questi aerei? È un complotto la turbolenza che attraversa o il danno che sperimenta l’aereo? Si sentono privati dei loro diritti, i passeggeri che non possono alzarsi? E mi domando: sarebbe una espressione di libertà se qualcuno, durante la turbolenza, invitasse tutti i passeggeri a togliersi la cintura di sicurezza e ad alzarsi per poter comprare oggetti - sull’aereo in quell’esatto periodo di tempo? Di nuovo, da sempre e per sempre, il potere neoliberista utilizza le parole praticando l’avvelenamento semantico. Sempre, nell’utilizzo della parola - libertà. Facendo leva e usando la frustrazione drammatica del piccolo commercio e artigianato, che cosa ci dicono i potentati economici, le lobby e i loro megafoni come i giornali e le tv? - “Torniamo a essere liberi”. Una frase che implica una premessa di prigionia e di punizione ingiustamente inflitta e dalla quale dover evadere. Certo che occorre riattivare, con grande cautela, l’economia. Ma quale econimia? E a quale veocita’? A quel #torniamoliberi rispondo: #torniamoumani, e ancor più: #torniamopartigiani. Perché la fuori c’è, identica a come c’era prima e proprio là dove stiamo per riuscire, una alcatraz dei diritti che ora brama per ripristinare i suoi principi inceppatisi per poco. Una alcatraz dove ad essere imprigionata non è la libertà di correre in un parco, ma una possibile visione altra del mondo. Dove i secondini tengono a bada qualunque possibile crepa di un sistema che brama il profitto come unica fede. Vi è un secondo elemento, ineludibile, per essere “partigiano” di questo sogno. Schierarsi. Aprire lo sguardo. Mettere in discussione ciò che mai, nemmeno più nella teoria, viene messo in discussione: l’intrinseco fascismo del neoliberismo. Il 25 aprile parla del presente e al presente. La Resistenza stessa è al presente. Mi rivolgo ai miei colleghi, tutti, quelli che hanno il privilegio di avere un pubblico a cui parlare. Schieriamoci ora. Nominiamo di nuovo le parole che sono le cose. Anche nella fatica della sopravvivenza, nell’arte praticata da ognuno, ora è il momento di essere – partigiani di una idea che festeggiamo il 25 aprile, ma che va difesa il 26, il 27, il 28, qualunque giorno nel quale, attraverso il linguaggio, ci viene venduta come necessaria l’idea che per vivere occorra tornare ad essere ciechi. Ciechi di fronte alla barbarie di questo sistema che sembrava immutabile ed intoccabile. Per la prima volta siamo stati obbligati a stare dannatamente soli con noi stessi. E il rumore del silenzio di quando si è soli può essere assordante. Ma questa assordante solitudine, questa drammatica possibilità di fallire è figlia legittima dei tempi che ci hanno preceduto. Iniziamo a riprenderci una voce con un respiro largo. A riprenderci questo armamento di parole che ci viene puntato contro. In questo andirivieni della Storia, che torna e semrba voler farsi beffa di noi - riprendiamoci le parole. Ribadiamo, ogni giorno, l’inascoltabilità delle loro frasi. Schieratevi, schieriamoci. Torniamo partigiani. E allora forse, anche la parola patria e la parola libertà avranno di nuovo, almeno un po’, senso. Pubblicato sulla pagina #ANPI CAGLIARI, ANPI Provincia di Cagliari e #Ioestolibero25aprile2020
Guardo fuori dalla finestra, e non mi sento un recluso.
Siamo tutti qui, a riscoprire forzatamente il senso lento del tempo. Ma anche il senso lento del tempo non è imparziale. Non è equo. Il tempo da reclusi in una casa confortevole, magari con un giardino, un buon stipendio è una cosa, il tempo lento sospeso in uno spazio minuscolo per sé e pochi soldi, nemmeno sicuri, è un'altra. Così come il tempo sospeso del tempo è diverso per chi è solo, dannatamente solo e già fragile, prima e dopo qualunque virus. Per paradosso, sono quasi sereno nel pensare che una parte di società, noi, e per poco, debba sperimentare obbligatoriamente cosa sia il senso dell’imprigionamento. Spesso sento dire – “Quello s’è fatto solo 10 anni di galera”. Moltiplichiamo queste nostre ore così dilatate, così fatte di vuoti e silenzi e finestre dentro, per mesi, per un anno, per tre anni. Cinque. Dieci. Venti anni. Mi si dirà: ma noi non abbiamo commesso un reato grave e nemmeno un reato piccolo per il quale dover espiare. Certo, ma sperimentare e comprendere anche se per poco la pena prima di invocarla o infliggerla, è una possibilità che questo periodo ci può donare per comprenderne la vera entità. (Su questo tema, penso al meraviglioso “Film rosso”, di Kieslowski.) Guardo fuori dalla finestra, e penso che non è tanto la nostra libertà ad essere sospesa. È sospeso, oggi, ieri, da tanto, troppo tempo, il senso del Noi. Di popolo senza confini quale è l’unica possibile e pensabile vera famiglia: gli esseri umani. Quanto pesa, ora, questo macigno che portiamo nello sguardo, il virus del “Conta solo il profitto, la produzione”? Quanto pesa, ora, questo virus mentale che ha reso pensabile il pensiero che sia normale privatizzare - e considerare come merce e uno sperpero di soldi, il diritto più importante: il diritto a vivere in salute e a essere curati? Quanto pesa il - “Sono morti in tanti, ma quasi tutti anziani, e con malattie pregresse”? Quei “vecchi” che una società civile degna di questo nome, deve proteggere e curare ancor di più proprio perché più fragili. In quel “ma”, respira la malattia del nostro secolo, così virulenta da cambiarci geneticamente la visione. Così virulenta da averci chinato lo sguardo e ipnotizzato la voce, da averci fatto ri-votare coloro che sempre, da sempre e per sempre, invocavano, invocano e nuovamente invocheranno le ricette di un capitalismo feroce e cieco. Perché il virus dei virus è l’amnesia storica. Il non ricordare o il non essere nemmeno più interessati a ricordare. Con lo sguardo fuori, faccio mie le domande che vengono poste. Non sono un costituzionalista, ma un semplice lettore della Costituzione. Dentro vi trovo due principi bellissimi. La tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo, e la libertà personale di circolazione, di riunione, di espressione. E se i due diritti, forse, vanno costituzionalmente in contrasto, cosa fare? Credo che il primato debba pesare sulla vita delle persone. A patto che si rimanga vigili. Non credo vi sia una diminuzione dei nostri diritti – ora. Senza protezione della salute dei più fragili, non vi è possibile libertà. Anche l’obbligo di stare seduti e di non camminare nel corridoio durante il decollo e atterraggio degli aerei è una “limitazione” della libertà. Ma la accettiamo come “bene comune”. Il problema non è se sia giusta o meno questa limitazione. Ma se, una volta terminata l’emergenza, questo precedente verrà utilizzato da una disciplina che scienza non è: l’economia. E occorrerà essere vigili, per due ragioni. La prima: perché da sempre l’Economia, e parlo di quella liberista, si spaccia per Scienza. Assurge a titolo di pensiero ineluttabile. Fu così con la Grecia e fu così in tutta Europa dopo la crisi bancaria del 2008. Lì, in nome non della salute di tutti, ma della salute della finanza, i principi di solidarietà e giustizia sociale furono non compressi, proprio estinti. Guardo fuori dalla finestra, e temo che reclusi, lo saremo di nuovo quando usciremo. Reclusi dentro una visione malata che ci riproporrà banchieri come primi ministri e parole drogate come “PIL” come falso termometro del benessere. Ma c’è una cosa che invece mi colpisce. Non i diritti compressi. Per la prima volta in secoli, la Politica, certo con errori e probabilmente per poco tempo, ha anteposto il valore della salute a quello dell’economia. Non completamente, certo, come l’ascoltare le vergognose ed egoistiche pressioni anti-chiusura di Confindustria. Ma la Politica, suo malgrado, ha spostato brevemente l’asse. L’umano pesa. È qui, che dovremo essere vigili. E fermi. Perché sento tante dichiarazioni del tipo “Ne usciremo migliori” o “La pandemia ci sta insegnando molte cose.” Sarà il “Dopo coronavirus” una finestra per un cambiamento? No. Pensarlo in astratto è solo un “ottimismo New Age”. Non è un automatismo. L’umanità ha superato la peste, due guerre mondiali. Il senso di solidarietà iniziale, è stato poi gradualmente inghiottito dal sistema di una visione mercificata dell’uomo e nel paradigma uomo uguale merce, i diritti sono un impiccio. Ora, ma soprattutto dopo, a emergenza finita, l’economia che non è una scienza, cercherà di riprendersi il terreno che le è stato tolto. Cercherà di far pesare nuovamente poco, pochissimo, l’umano. L’idea che la crisi come un’epidemia o una crisi economica creino “naturalmente” un cambiamento in meglio è un’idea al limite della New Age. Un essere positivi sradicato da una visione storica. Nulla cambierà. Il sistema cercherà un traghettatore dalla faccia buona per gradualmente ripristinare la presunta normalità: dove il Mercato ride mentre noi sui balconi non canteremo più. Nulla cambierà. Sarà solo un trasferimento di detenzione. Da prigionieri dentro, a prigionieri fuori, nel mondo del Mercato. A meno che. A meno che non sfruttiamo questa “sospensione del tempo” per provare a provocare questa paralisi mentale così vitale per il potere. A meno che non proviamo a rendere pensabile l’idea del ridiventare -soggettività. Soggetti della Storia e non oggetti. E cosa significa ridiventare soggettività? Significa innanzitutto uscire dal proprio ombelico e collettivamente diventare udibili. La libertà’ di parola oggi non serve a nulla se non è dilagantemente ascoltabile. Agli Indiani d’America la parola non è negata. Semplicemente, nessuno la ascolta e nessuno può udirla. E forse, nessuno la cerca. Sarà cruciale da un lato essere vigili sui diritti, come lo si è col sistema immunitario. E soprattutto, dall’altro, come ha detto un filosofo che ho avuto il piacere di scoprire da poco, Roberto Mancini. “Ricucire la stoffa dell'umano”. Per iniziare a ricucire la stoffa dell’umano, occorre innanzitutto capire chi debba agire: dove sono gli artisti? Gli intellettuali? Gli operai? Gli studenti universitari e non? Tutti atomizzati alla ricerca di una sopravvivenza o affermazione individuale. Ricercare e costruire un vero senso di appartenenza. Lo dico a me in primis, ma anche ai miei colleghi artisti. Interroghiamoci, parliamo, non solo cantando dal balcone, ma interrogandoci, guardando negli occhi questa bestia quale è una visione dove le merci contano più dell’uomo. Dove accettiamo la regola della competizione e la regola del sacrificio del tempo, della vita. Interroghiamoci su come poter veramente contaminare questo mondo con un virus buono: il virus che ci ridona la visione del Noi. Non la voglio la “normalità di prima. La normalità predatoria. Cerchiamo l’anormalità. Guardo fuori dalla finestra, e non mi sento recluso. Quanto sarà lungo il giorno della normalità? Dai balconi, cantiamo una visione. L’essere umano non è ancora nato. Pubblicato su VIRUS E DIRITTI sulla pagina del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli
PILLOWS OF NICOSIA (Versione in italiano sotto) I remember a story about a dream, from the poet Miguel Ángel Asturias. One night Patricia dreamt that they were on a platform beside a train. All passengers were carrying with them the pillows they had slept on the night before. Before they could get on the train, special guards would check their pillows into a special appliance: this machine would have extracted the dreams from the night before from the pillows, making sure there was nothing rebellious or defiant in them. I have been in Nicosia in Cyprus for a week. What we did during this week, was a continuation of that dream: we extracted dreams from our invisible pillows. Without fear, we searched for music, stories, anecdotes capable to disorient our sense of “borders”. And we did let these unfulfilled dreams floating in the air from one roof to another roof on both sides of this divided city. Then, Tides was screened on both Turkish Cypriot and Greek Cypriots sides of Nicosia, followed by a debate on the poetics of borders, separation and identity, with a great discussion with the panellist who contributed with their unique point of views and experiences: Yiorgos Hadjichristou, Sholeh Zahraei, Marios Epaminondas and Brian Kelly. I would like to express my deep gratitude to those who decided to bring myself and my Tides over to Nicosia: The organization Urban Gorillas, Cyprus Community Media Centre, the Italian Embassy in Cyprus, the Irish Embassy in Cyprus. Also, a big thank you to all the participants who joined my workshop, you all enriched me with your videos and creativity. And a gigantic Thank You, to the person who originated the whole dream and pursued it with an incredible passion and determination: Celine Cassarino. One of the many unfathomed mysteries of our age is the exhistence of “borders”. This week we were all bypassing them, trying with our passion and imagination - to disorient them. Let’s keep traveling with our “pillows” full of un-tameable dreams, promises and hopes. Maybe, the most concrete of our liberties, is imagination. Thanks to all of you, really. I CUSCINI DI NICOSIA
Rammento la storia di un sogno, credo del poeta Miguel Ángel Asturias. Una notte Patricia sognava di essere su di un binario accanto a un treno in partenza. Tutti i passeggeri avevano con loro i cuscini sui quali avevano dormito la notte precedente. Prima di salire sul treno, le guardie avrebbero inserito i loro cuscini in un macchinario che, da quei cuscini, avrebbe estratto i sogni dalla notte prima, assicurandosi che in essi non vi fosse nulla di ribelle, rivoluzionario, o indomabile. Sono stato a Nicosia a Cipro per una settimana. Ciò che abbiamo tentato di fare durante questa settimana, era forse la continuazione di quel sogno: abbiamo estratto sogni, promesse, speranze dai quei cuscini invisibili - e senza timore, li abbiamo cercati dentro le musiche e le storie e gli aneddoti delle persone, da entrambo i lati della città, turco cipriota e greco-cipriota. E a quelle storie e a quelle musiche, abbiamo fatto travalicare i confini di uno dei tanti muri d’Europa, da tetto a tetto, da entrambi i lati di Nicosia. E poi, la grande emozione di vedere ‘Tides’ in entrambe le parti turco-cipriota e greco-cipriota della città divisa di Nicosia, seguito da un dibattito sulla poetica dei confini, con bellissimi dialoghi e confronti con Yiorgos Hadjichristou, Sholeh Zahraei, Marios Epaminondas and Brian Kelly. Con la piazza piena di gente, immersa nei racconti di Tides. Vorrei esprimere la mia profonda gratitudine a coloro che hanno deciso di portare il mio cappello e le mie Maree a Nicosia: l'organizzazione Urban Gorillas, il Cyprus Community Media Centre di Cipro, l'Ambasciata Italiana a Cipro e l'Ambasciata Irlandese a Cipro. Inoltre, un grande ringraziamento a tutti i partecipanti che hanno partecipato al mio workshop. Un grazie ai membri del panel. E un gigantesco Grazie, alla persona che ha creato l'intero sogno e lo ha perseguito con un'incredibile passione e determinazione: Celine Cassarino. Forse, la più concreta delle nostre libertà, è l'immaginazione. Uno dei tanti misteri sconfinati della nostra epoca è la domanda - Che cos’è un confine?” Continuiamo a viaggiare con i nostri "cuscini" ricchi di sogni, promesse e speranze - non addomesticabili. Grazie a tutti voi, davvero. Le amicizie sono città. Ci passeggi dentro, sapendo che contengono quartieri, bar, mercati dove condividere storie, aiuti, spalle, confidenze, piccoli pezzi di strada dove vi si passeggia sentendosi – più di uno. È una presenza che resta sotto cute. Ti ci muovi dentro, tra una partenza ed un ritrovo. Nei loro meandri conservano la sensazione di essere nati per condividere. Alcune di queste “città” ti accolgono per sempre, altre ad un certo punto, nascondono fantasmi e senza saperlo, e per tante misteriose ragioni, ti respingono. L’amicizia con Mario mi regalò, tra le tante cose, una potentissima lente: saper riconoscere chi, nelle tue cerchie di conoscenze ed incontri, è presente in te senza nessun scavalcante, inconsapevole individualismo. Senza alcuna mal nascosta invidia. Il sentire chi è naturalmente - curioso di te. E saper riconoscere chi, invece – sottraendo, fa di quella “città, di quei quartieri di condivisione, vicolo cieco di rivalità. L’invidia è l’unico vizio triste che non produce piacere. E così spesso mi capita, trovandomi di fronte a qualcuno inzuppato di disinteresse di pensare: è un “Anti-Mario”. Dondero come una sorta di categoria del pensiero e del vivere. Mario, da qualcuno invidiato, non coltivava l’invidia. Una volta, dopo una vagabondata tra bar e trattorie, riferendosi a persone di lui invidiose, mi disse: “L’invidia danneggia lo sguardo”. E mi piaceva questa idea che l’invidia o il disinteresse, fossero causa di calo di diottrie. Seppur fosse un gran narciso, Mario faceva sgambetto al suo ego anticipandolo, mettendo prima l’ascolto, gli altri, la loro arte o le loro storie. Con Mario tutto diventava curva, sparivano gli spigoli della fine. L’Io e il Tu diventavano un infinito contenimento. Era città, dove potersi perdere tutti i giorni e non dirsi mai addio. Ciao amico mio, cammino nel mio girovagare con questa lente, e quando mi manchi e mi va, come oggi, ti riacciuffo per qualche istante da chissà quale luogo dove ti sei andato a cacciare, e ti ringrazio. Sono dentro la nostra “città”.
IL MIO CV.
Spesso mi accade che mi chiedano che studi io abbia fatto per diventar regista. E la mia risposta è pressochè sempre la stessa: la mia vera università, sono stati i Pub e i Caffè. Lì, vi ho divorato i migliori libri, scritto i miei diari e le poesie peggiori, ascoltato racconti che contenevano, senza saperlo, Foucault, Edgar Lee Masters, Anaïs Nin, Baudelaire. Lì ho scoperto mondi nascosti dentro a persone che, senza saperlo, erano libri, quadri di Hopper, musiche che intonavano sogni dimenticati o speranze mai svilite. Lì, al bancone o al tavolino, disegnavo mappe, panorami di mondi e storie da andare a scoprire. Ma il mio giardino d'infanzia sono state le sale da ballo. La più leggendaria, era l' "Esedra Dancing" di Cattolica. Ci andavo da bambino con mia mamma. Lì assistevo al grande spettacolo: l'avvicinarsi per un invito, le donne che misuravano l'attrattiva di un uomo da come i suoi piedi sapessero muoversi sulla pista, e poi l'orchestra che mi salutava ed io mi sentivo a casa, e poi i camerieri, che mi riconoscevano e senza chiedere mi portavano il bicchiere d'orzata. Lì, a volte, mi addormentavo felice. Le donne eleganti e i loro profumi, le timidezze e le vanterie, le avances e i rifiuti, tutto quel mondo era in sè una danza che osservavo e bevevo come un grande spettacolo, tra le cui braccia volteggiavano tutte le mie rêveries. Sono mondi scomparsi, che mi visitano di sorpresa come un inaspettato valzer, e mi ricordano da dove vengo. Dai bar e dalle sale da ballo. Vi incontrai bussando alla vostra porta. Così, come fanno i postini. Solo che io non avevo nulla da consegnare, se non la mia faccia da bracconiere di storie, di cercatore d'oro non da vendere, da vivere. All’epoca stavo cercando suggestioni per il mio film “Paradiso”, ma anche risposte al disorientamento che sempre provo rispetto a chi ha deciso di rimanere a vivere in un quartiere prigione.
E così, dentro quel quartiere prigione, scoprii voi due: Kathleen e May. In quelle lunghe chiacchierate e tanti caffè, mi gustavo ogni vostro gesto di bambine mai domate. Più tempo passavo con voi, più scoprivo che si può essere 80enni e tuttavia prodigiosamente più giovani di tanti, troppi, vecchi 30enni. Scoprii che si può portare a passeggio la gioventù eternamente, se non la si soffoca col disincanto, e che occorre un sacco di tempo per diventare giovani. E scoprii che volevo ballare con voi, sempre, da sempre e per sempre. A fare giravolte d’allegria inaspettate, passi di un ballo indomabile, danzando in faccia a un mondo che vi voleva solo passate e finite. A ballare il tango dello sguardo mai domato, né dalle sconfitte né dalla dimenticanza. Se esiste un elisir anti invecchiamento dell’anima, voi ne custodivate il segreto, e lo applicavate ogni giorno. Ricordandomi, senza nemmeno saperlo, che la vita è una danza brevissima, e star seduti al tavolo mentre il giradischi suona è il solo vero peccato. Da quel giorno, e per sempre, voi due mi avete invitato a ballare quel tango. Un tango fatto di leggera allegria, come i passi che mai devono appesantirsi per non finire su quelli degli altri. Durante le riprese, filmarvi non era un lavoro, era una festa. Interrotta sistematicamente dal vostro trascinare me e la troupe nella “pista da ballo” della vostra cucina. Dopo il successo di ‘Paradiso’ ogni tanto venivo a trovarvi, a volte senza annunciarmi. May mi aprivi e sulla porta dicevi - Kathleen, Alfred Hitchcock è arrivato, metti su il caffè. - Poi il caffè ce lo dimenticavamo, perché a venir su era la voglia di ballare in cucina. Rammento che poco prima che uscisse Paradiso, vi facemmo vedere il film in DVD, ma con la promessa di non farlo vedere a nessuno prima della sua uscita sulla BBC che ne richiedeva l’anteprima. Voi, alla domanda dei vostri figli – Ma voi l’avete visto il film? - con innocente astuzia rispondevate - Noi? No no, noi non sappiamo nulla. Poi, una volta usciti i vostri figli, chiudevate la porta e di nascosto rimettevatesu il DVD, per stupirvi ancora una volta d’esser finite in televisione per colpa di “Alfred Hitchcock”. Io vi guardavo, e vedevo le risposte a tutte le domande, a tutti i mugugni, a tutte le lamentele dei trentenni, dei quarantenni, dei ventenni: “La vita non è la festa che ci aspettavamo. Ma siamo qui, e balliamo.” Ora ve ne siete andate, come fanno i grandi ballerini, senza dirlo, e chissà quali nuovi piedi di quale nuovo ballerino state scrutando. Ciao mie dolcissime May e Kathleen. Non vi mollo, ovunque siate finite. Vi porterò su qualunque pista, in tutte le sale da ballo della mia vita, in tutti i passi di una danza dove la vita sorride anche quando perde. Vi terrò vive, come voi non invecchierò dentro mai. |
ALESSANDRO NEGRINI
Appunti, provocazioni, pinte e danze. Archives
June 2023
Alessandro Negrini
Regista per errore, poeta per caso, flaneur per scelta. |