IrishFilmFesta: conversando con Alessandro Negrini
Tra le visioni che più ci hanno colpito, nel corso dell’Irish Film Festa, vi è stata senz’altro quella di Paradiso, sia per il fatto che non capita così frequentemente di vedere un documentario realizzato in Irlanda del Nord da un regista italiano, sia per la brillantezza del lavoro svolto. Per entrare subito nel vivo della questione, abbiamo pensato bene di bloccare l’autore di questo film, Alessandro Negrini, e di fargli qualche domanda.
- Come è nato il progetto di Paradiso, il tuo documentario?
Così come tante altre cose nella mia vita, Paradiso ha avuto origine da un errore: stavo camminando nel centro di Derry ed entrai dentro al cancello che conduce al Fountain pensando fosse una scorciatoia. Capii poco dopo che ero invece capitato in una prigione a cielo aperto, completamente circondata dal muro di sicurezza. Da quel momento decisi di scoprire chi erano le persone che avevano deciso di vivere dietro a un muro. E come in tutte le prigioni, vi scoprii diverse tipologie di “prigioniero”. Trovai il prigioniero che non si è mai neanche accorto d’essere in prigione, e che ha passato la vita a ballare, come le due vecchiette protagoniste del film. Trovai quello che invece ha bisogno della propria prigione, che la abbellisce, che ci mette la pianta di fiori sulla finestra. E come in tutte le prigioni, trovai il prigioniero che voleva, seppur metaforicamente, evadere. Direi che “Paradiso” in fondo è la storia di una piccola, preziosa evasione. Ed il grimaldello utilizzato per evadere è in questo caso la musica. Un poeta a me caro disse: un uomo che guarda un muro è un uomo solo. Due uomini che guardano lo stesso muro è il principio di un’evasione.
- Abbiamo saputo che a Derry ci vivi anche ma, da quanto tempo hai contatti diretti con l’Irlanda del Nord?
Io vivo a Derry da una decina d’anni. Quando arrivai a Derry la guerra era da poco finita, seppur ufficialmente. E quella realtà aveva dentro di sé quel disordine creativo, anche ingenuo se vuoi, dei luoghi che hanno appena abbandonato un conflitto. Si sentiva l’energia, il disordine di chi sta, volente o nolente, voltando la pagina. Io, solitamente, mi annoio laddove c’è troppo ordine. L’ordine è nullificante per me.
Devo però dire che, purtroppo, Derry e l’Irlanda del Nord stanno perdendo quello che era il fascino del “voltare la pagina” . E lo stanno perdendo perché la nuova pagina su cui è finita è l’omologazione alla cultura del dio denaro. La corsa scatenata al privato, al far quattrini. Cultura che ha già travolto la repubblica d’Irlanda. Anche qui, il nuovo totem, di cui non si può parlar male, è il Mercato. Anche in Irlanda cosi come in tutta Europa, si parla del Mercato come se fosse una persona: “Oggi il mercato s’è ripreso, forse sta un po’ meglio, speriamo non abbia una ricaduta”. Sento la mancanza anche qui, come in tutta Europa, di un sogno che sia più grande di quello dell’aumento del PIL.
- Il tuo film introduce la realtà del Fountain, una piccola enclave protestante nella parte della città a maggioranza cattolica, attraverso l’incontro con musicisti e altri personaggi di grande spessore umano. Come si sono instaurate le relazioni con loro e cosa ti ha colpito di più, emotivamente, di questa esperienza?
Con gli abitanti del Fountain feci un patto: dissi loro che ero un po’ matto, e che sarei potuto capitare nelle loro cucine con la telecamera. Loro dissero di sì, anche se non avevano capito bene quanto matto fossi.
Per fare i registi occorre violare i confini, i muri. Ho sempre pensato che se non fossi diventato un regista sarei potuto diventare un contrabbandiere. Per questo amore del violare i confini.
Iniziai così a “scavalcare” questa frontiera, a bussare alle porte delle persone, ad andare a bere nei pub limitrofi e a conoscere le persone che ci abitavano.
Un giorno una di quelle porte alla quale bussai fu quella di Catherine e May, le due sorelle del tango. La loro innata, ineludibile e contagiosa freschezza mi sedusse immediatamente. Capii subito che loro sarebbero state tra i protagonisti del film.
Il protagonista principale, Roy, lo conobbi in un bar dietro al Fountain. Tra una Guinness e l’altra venne fuori l’idea della serata danzante come ‘antidoto’ a quello che è il peggior lascito di ogni guerra, la paura dell’altro.
Quello che mi ha colpito di più emotivamente di questa esperienza è stato questo viaggio che ho percorso insieme ai protagonisti del film. Mi piace pensare che faccio film non su qualcuno, ma “con” qualcuno. Ed è davvero fondamentale per me far sentire ai personaggi che per me loro non sono importanti perché devo filmarli, ma perché esistono. Questa è l’emozione più bella per me, il sapere che le persone che filmi rimarranno nella tua vita. Ancora adesso vado dalle due vecchiette a trovarle e a prendere ‘lezioni di gioventù, e non è raro che si finisca a ballare un valzer nella loro cucina. Loro mi hanno insegnato che, a volte, occorre un sacco di tempo per diventare giovani.
- Nel corso del film si allude alla realizzazione, da parte di uno dei protagonisti, di un disco contenente ballate che rievocano passato e presente del Fountain. Che esito ha avuto questa ballata musicale?
Il CD prodotto dal protagonista Roy, ha avuto un discreto successo. Finì nella radio della BBC. Nel film c’è questa frase: “I vincitori scrivono la storia, e i perdenti scrivono le canzoni”. In questo caso, col suo cd Roy ha scritto un pezzettino di Storia.
Volendo muovere un appunto alla rievocazione delle tragiche contrapposizioni tra cattolici e protestanti, che resero così difficile la vita in una città sostanzialmente divisa, si avverte un po’ la mancanza di rimandi alle lotte di classe, al background sociale che solitamente accompagna certi scontri ideologici. Consci che questo non era certo tra i tuoi obiettivi primari, vuoi aggiungere qualcosa a riguardo?
Mi trovi in disaccordo. Anche se ne ebbe alcuni connotati , io non credo che in Irlanda ci sia stata una lotta di classe. Altrimenti i poveracci cattolici si sarebbero uniti ai poveracci protestanti anziché farsi la guerra. E’ stata una guerra tra la stessa classe, non di classe. Detto questo, a me interessava fare un film su un tema che credo sia universale, su questo veleno che ci viene iniettato quotidianamente: la paura. La paura come motore generante di tutti i nostri gesti, e sulla possibilità di batterla; in questo caso la paura dell’altro. Ma la mia piccola ambizione era fare un film che potesse avere anche una piccola eco su uno dei più grandi paradossi che non notiamo nemmeno più: le città, nate dal bisogno degli esseri umani di incontrarsi, sono oggi fatte e costitute da essere umani divisi tra di loro. Pensa al condominio, per esempio. Io sono sempre meravigliato dalle micro-guerre da condominio. Non c’è agglomerato di solitudine più eclatante. Tutti asserragliati in casa dentro piccole “alcatraz”. Mi interessava questo. Raccontare una storia dove, per una volta, da queste carceri visibili o invisibili, si evade. E si evade facendo una cosa semplicissima: riaprendo le porte, riaprendo le danze. Invitando il proprio vecchio nemico a ballare nuovamente insieme. Ma la cosa straordinaria per me è che in questa storia, coloro che non si rassegnano allo status quo, coloro che sono portatori di questo piccolo sogno in cui non si è più domati dalla Paura, a far questo sono gli anziani. I vecchi. Ironico, no?
- Come ti sei trovato, produttivamente parlando, a realizzare un documentario in Irlanda?
All’inizio non è stato semplice. Convincere a darci soldi per un film su un ghetto protestante, che probabilmente morirà e con tutti protagonisti tra i 70 e 84 anni.
Ho una grandissima produttrice, Margo Harkin, ed insieme lo proponemmo alla BBC con un trailer ed una presentazione molto ben fatti. Credo sia piaciuta loro l’idea che io non volessi fare un altro film sulla guerra nordirlandese, ma che avesse un taglio diverso. Dall’altro lato sono ero e sono ancora stupefatto, perché Paradiso è tutt’altro che un prodotto tipico da BBC, ma per fortuna a loro è piaciuto molto l’approccio estetico del film. Abbiamo anche avuto il sostegno di MEDIA, il maggior ente europeo per il cinema.
- La raccolta dei materiali di repertorio riguardanti sale da ballo e conflitti sociali è stata agevole o ha comportato qualche indagine più del previsto?
Avendo la BBC a bordo, ho potuto consultare decine di ore di loro materiale d’archivio. Per il materiale sulle sale da ballo ho dovuto cercare anche tra gli archivi della TV irlandese oltre che tra gli archivi fotografici della biblioteca. Ma per me è’ stato un piacere più che un lavoro. Ho un legame affettivo molto forte con il mondo delle sale da ballo, mio nonno ne gestiva una nel ferrarese e mia mamma in seguito mi ci portava con sé da bambino sulla riviera romagnola. Le sale da ballo sono state il mio mondo delle meraviglie, guardare migliaia di ore d’archivio è stato per me un piccolo regalo alle mie memorie di bambino che si addormentava felice nelle sale da ballo.
Il regista norvegese Knut Erik Jensen
- Per finire, una piccola curiosità personale: in un’altra intervista hai citato con entusiasmo un regista norvegese, Knut Erik Jensen, del quale chi scrive ha apprezzato molto il sorprendente lungometraggio Burnt by Frost, diretto una decina di anni fa ma poco conosciuto in Italia. Che rapporti hai col cineasta scandinavo e col suo cinema?
Knut Erik Jensen è in realtà uno dei miei punti di riferimento costanti. Lo conobbi quando mi trovai nell’estremo nord della Norvegia per lavoro nel 2004, nel paese dove lui è nato, Honningsvag, a mezzora da Capo Nord. E lì vidi con lui un suo film che cambiò la mia percezione visiva: Stella Polaris. I suoi film sono una sorta di sinfonia visiva, dove il tempo e lo sguardo si dilatano. Magia pura. In comune con lui ho anche il direttore della fotografia norvegese che ha girato Paradiso e col quale collaboro tuttora al nuovo film su cui sto lavorando. Lui ha lavorato con Knut Erik spesso, si chiama Odd Geir Saether, ed è stato anche direttore della fotografia inInland Empire di David Lynch. Oltre ad essere un grande regista è una persona splendida, di una umanità incredibile. La seconda volta che lo vidi mi invitò a casa sua verso le 7 di sera. Io credendo che si trattasse di un invito a cena non mangiai all’hotel. Arrivato vidi che c’erano solo the, biscotti e vino.
Mi spiegarono dopo che lassù in famiglia fanno cena alle 4.30 del pomeriggio. Morivo di fame ed al quarto bicchiere di vino mi arresi: non ho mai mangiato tanti biscotti in vita mia come quella sera.
Stefano Coccia
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