VOLEVO FARE IL CONTRABBANDIERE (E sono finito col fare il regista).
Intervista di Antonella Molinaro
Ciao Alessandro, bentornato su cinemio. Ancora una volta l’Irlanda protagonista dei tuoi documentari, questa volta per raccontare la storia attraverso la voce di un fiume. Come sei arrivato al soggetto di Tides?
Diciamo che mi definisco un rigattiere di storie. Di storie apparentemente piccole, ma che sono spesso intrise di una poesia involontaria: la poesia dei vinti. Queste storie le scopro spesso impolverate in qualche sottoscala della memoria, in un viaggio o su qualche bancone di un bar, e cerco a mio modo, di dar loro un canto. Poi, io sono sempre stato affascinato dal tema del “confine” in tutte le sue accezioni, antropologiche e psicologiche. Il fiume di Derry è un confine liquido, quasi intangibile nonostante la sua maestosa presenza dentro la città di Derry, in Irlanda del Nord. Ho voluto immaginarmi che, per la prima volta, non fossero le persone a narrare il confine, ma il confine a narrare le persone. E così, lentamente, questo fiume un po’ anarchico che va verso nord, ha acquisito una sua personalità ed ha iniziato a sussurrarmi ciò che ha visto, e la grande Storia che, declinata in storie minime, ha iniziato ad emergere a pelo d’acqua sul fiume.
La questione irlandese ha infiammato le cronache per molti decenni. Come mai hai voluto occupartene ancora una volta?
In realtà non sono convinto che Maree sia un film sul conflitto nordirlandese. Certamente, geograficamente parte da lì, ma proprio come un fiume ha un suo estuario, che conduce altrove. E questo altrove è un luogo che non esiste, se non nella nostra sedimentata memoria: il luogo dei sogni dimenticati. Quando ho iniziato la fase di ricerche del film, ho scoperto una moltitudine di storie. Ho incontrato tantissime persone le cui vite erano state scandite a ridosso di questo confine liquido. E in tutte le storie che ascoltavo e scoprivo, trovai questo comune filo rosso: tutte le persone che avevo incontrato mi rivelavano che avevano, ad un certo punto della loro vita, dimenticato un pezzo di sé. E non solamente a causa del conflitto. A un certo punto della loro vita, a volte senza neanche accorgersene, avevano dimenticato un sogno che teneva loro in vita. Tides (Maree) racconta questo “non luogo”, questo territorio onirico, fatto della memoria di quel pezzo lontano della nostra vita, nel quale la capacità di sognare non era ancora stata domata. E questo filo rosso travalica i confini irlandesi, parla di tutti noi. Tutti ospitiamo dei sogni che furono addomesticati, delle speranze, dei destini che potevano essere i nostri e che invece ci hanno fatto abbandonare.
Il fiume silente e testimone delle umane esistenze ha radici antiche. Perché lo hai scelto?
Forse è il fiume che ha scelto me. È perentorio, sempre in movimento, capace di incorporare e di interpretare la storia dei ritorni, che è anche la Grande Storia, che tende sempre a ripetersi seppur in forme diverse. In Irlanda, sia i cattolici che i protestanti sono dei vinti. Vinti da un potere economico che li voleva in guerra prima, e sfruttati e sfruttatori dopo. E questo assioma viene applicato ovunque, anche in Italia: per poter oliare i meccanismi della società, la tua vita deve essere addomesticabile, vivere di oblii e, infine, fatta di scelte sempre scandite da una paura.
Attraverso una voce diversa, in questo caso il fiume, volevo raccontare la vertigine immaginifica dei vinti di ogni tempo. Il fiume Foyle parla anche di cattolici e protestanti, ma soprattutto parla a tutti coloro che si sono dimenticati ciò che erano nati per essere. Volevo che questo film lasciasse allo spettatore, alla fine del film, una sorta di nostalgia del futuro non vissuto. Forse l’unico possibile significato del narrare storie, risiede proprio nel riscattare questa seconda Storia, mai narrata, mutilata. La maggioranza dell’umanità sembra condannata all’oblio obbligatorio, e nessuno ricorda più chi era né cosa davvero anelava. I protestanti ed i cattolici un tempo non si ponevano minimamente il problema religioso, danzavano insieme sul fiume ghiacciato o nelle sale da ballo. Ma il sistema universale del potere ci proibisce di ricordare, perché ci proibisce di essere. E non poter ricordare significa essere condannati a non vivere. E la maggioranza delle persone non può costruirsi alcun sogno, può solo subire il percorso obbligato che li domina.
Fai dire al fiume: cos’è un confine? E tu cosa pensi delle barriere che noi uomini siamo soliti creare?
Nel mondo antico, l’andare oltre i confini stabiliti dalla divinità veniva punito. Ma al contempo la storia dell’uomo moderno è sempre coincisa con un andare al di là dei limiti e da atti di disobbedienza. L’atto stesso del nascere, che cos’è se non il superamento di un confine, il ventre materno. Purtroppo oggi l’idea del confine viene spesso associata all’idea di difesa dell’identità. Io per esempio, non credo nell’identità. Io credo nella soggettività. E non nutro alcuna fede nell’identità biologica o nazionale. L’identità nazionale è una forma di demenza indotta, spesso incurabile. Non vi può essere alcun vanto nell’essere nati in un luogo anziché in un altro. La vera identità è legata a ciò che fai e hai costruito o distrutto o ricostruito. Quindi direi che i confini, più che demarcazioni fisiche, sono solchi nella mente. Siamo fatti di confini, la nostra pelle è un confine… ma i confini non devono isolarci.
La stessa riva di un fiume, la battigia, che è un confine, tiene insieme contemporaneamente acqua e terra, sabbia e onda. Nello stesso luogo sa riconoscere l’altro. Le persone più vive che ho incontrato nella mia vita sono state quelle che “sconfinavano”, che non erano collocate. Credo che il mestiere stesso di regista, ma penso agli artisti e agli intellettuali in generale, debba essere proprio quello di scavalcare i confini, di creare crepe e di depositarvi dentro dei dubbi. Infatti, nutro da sempre il sospetto che se non fossi diventato regista, sarei finito col fare il contrabbandiere. Proprio per questo comune destino del voler travalicare confini. Con la differenza che anziché portar sigarette da un paese all’altro, portiamo storie.
Ti va di raccontarci qualche retroscena delle riprese del documentario?
Tutto il film è stato sicuramente un’avventura, dalla fase di ricerca al far le riprese sott’acqua. Essendo un film totalmente indipendente, la realizzazione di Tides è stata all’insegna della massima libertà. Questo mi ha dato ampia indipendenza nello scegliere i tempi. Addirittura eccessivamente, nel senso che ad un certo punto non ero soddisfatto del film, sentivo che mancava qualcosa. Peccato però che il film fosse già montato. Ma decisi che il film necessitava di due sequenze in più, e di alcune modifiche al montato. Cosi, avendo terminato il budget della produzione, decisi di fare un crowdfunding per finanziare le riprese ed il montaggio di queste due sequenze. Per fortuna, il crowdfunding ebbe grande successo e mi permise di apportare le modifiche che volevo insieme al montatore Stuart Sloan, di Belfast, e al compositore delle musiche Cris Ciampoli. Poi diciamo che il fiume stesso, ha dato una grande performance. Oramai faccio fatica a non vederlo più come entità parlante. Prima o poi verrà a prelevarmi il reparto neuro mentre sono sulla banchina a parlare col fiume.
Tides ha partecipato a numerosi festival e vinto molti premi. Il riscontro di critica e pubblico è stato dunque molto positivo. C’è un complimento o un’osservazione che ti è rimasta più nel cuore?
Mi emoziona sempre tanto vedere come le storie che porto sul grande schermo possano tradursi nelle vite delle persone che lo vedono. Forse il complimento più bello è quello silenzioso: il sentire la platea immersa nella storia di questo strano fiume, e a fine film, percepire il desiderio da parte di qualcuno nel pubblico, di riappropriarsi del proprio destino, e della vita finita in esilio dentro di sé. Al Milano Film Festival, una ragazza in sala a fine proiezione mi ha detto: “Grazie per averci fatto desiderare di danzare con il fiume. Ora andrò a casa, riaprirò un cassetto, e tirerò fuori un mio vecchio sogno”. Ecco, l’idea che la storia di un fiume lontano possa essere in grado di far riaprire le danze di sogni dimenticati, mi emoziona. Oggi viviamo un avvelenamento semantico, non dico la parola ‘utopia’, ma persino la parola ‘sogno’ è percepita come desueta, o con un accezione giudicante (Sei un sognatore, inteso come disancorato dalla realtà). Poi il film ha un tono volutamente onirico, surreale, che all’inizio disorienta un po’ il pubblico, ma proprio come nei sogni, l’irrealtà diventa gradualmente un paesaggio credibile. Come diceva Artaud riferendosi a Balthus, dobbiamo descrivere la realtà in modo onirico per meglio crocifiggerla.
Forse è ancora presto ma, visto il riscontro dei tuoi documentari, stai già pensando ad un nuovo soggetto? Puoi anticiparcelo?
Il soggetto a cui tengo particolarmente, è sempre quello di godermi la vita. Poi ho in cantiere diversi progetti cinematografici. A livello più avanzato è il film sul quale lavoro da parecchio sul paese di Erto, in Friuli: un altro luogo-confine, zeppo di storie minime ma immense. Poi sto scrivendo una sceneggiatura ed un soggetto per film. Ma non posso svelare nulla. Anche i contrabbandieri sono superstiziosi.
Ringrazio Alessandro Negrini per essere stato ancora una volta nostro ospite e lo saluto anch’io come ha fatto lui con me…
Ciao Antonella. Volevo fare il contrabbandiere e sono finito col fare il regista 😀