Amo la parola partigiano. Credo l’avesse inventata Pietro Nenni, quando ancora povero in canna scriveva clandestinamente, traducendola dal russo Partizan.
È più bella della parola “patriota”. Perché travalica i confini. In una trasversalità di posizioni diverse, ma dentro l’arco dello stesso orizzonte, l’irrinunciabile e mai docile lotta per l’”umano”. Vorrei poter essere partigiano di un sogno. Partigiano del sogno più ampio e largo e lungo, che copre la latitudine e la longitudine di questo breve viaggio che è la vita: l’idea, certa e inviolabile e imbattibile-, che la dignità dell’uomo non è sopprimibile, mai. Né in tempo di guerra, né in tempo di vera o presunta pace. Né dentro casa, né sull’uscio fuori di casa. Né nella tua nazione né fuori della tua nazione. Ma come si fa – ad esserlo, in modo concreto, partigiani di questo sogno? Esserlo in modo che la frase stessa non sia un esercizio di neutro romanticismo, in modo tale che la parola “sogno” non rimanga in un inoffensivo alveo “new age” e di buoni sentimenti? Si può cominciare ad esserlo, credo, in due modi. Il primo è iniziare col riprenderci, e poi difendere - le parole. Le parole che ci sono state lentamente sottratte, come una mano che ci sfila il portafoglio dei pensieri, per essere cambiate e poi spese contro di noi, contro altri nostri simili, contro l’essere umano. Accade, da sempre. Ogni volta. Penso, tra i tantissimi, a tre eventi. È accaduto in Iraq. Accade ogni anno al 25 aprile. Sta accadendo ora con il Coronavirus. Che cos’hanno in comune eventi come la guerra in Iraq, il tentativo di neutralizzare il 25 aprile e l’emergenza Coronavirus, nello specifico l’uso della parola “dittatura” e le istanze del “riapriamo immediatamente tutto e subito”? L’Avvelenamento semantico. Un avvelenamento astuto, che non prende a prestito, ma ruba le parole che apparterrebbero a un orizzonte preciso, per portarle in un altro, quasi sempre opposto. E come accade questo avvelenamento dei pozzi del linguaggio? Con un graduale inquinamento da argomentazioni “di buon cuore”. Argomentazioni legate a una presunta “bontà” che sembra parlare nell’interesse di tutti. Facendo leva cioè su una nostra identificazione emotiva con parole che ci accomunano. Uno degli esempi più eclatanti: in tutte le guerre di dominio imperialista, ma soprattutto in quella in Iraq. Nata dalle menzogne di Tony Blair e G. W Bush (per le quali menzogne e conseguenti 300 mila morti mai hanno pagato) i promotori e tifosi dell’intervento bellico usavano, costantemente, questa espressione: “Guerra di liberazione”. Eccola, la parola che a tutti piace. La più prostituita, la più logora: libertà. Sino ad arrivare alla parola a lei legata: “Liberazione”. Utilizzata per compiere il suo esatto opposto, per estinguere proprio quella libertà che ci convincono di voler difendere. Ecco che la parola “Liberazione” – che assume nel suo evento più vero e reale, il 25 aprile, la sua perfetta esecuzione storica, diventa invece paravento e maschera per una aggressione bellica dalle dimensioni di un olocausto – la guerra in Iraq. Utilizzando la parola che fa leva sul cuore e sulla nozione di bene collettivo - “liberazione”, rubata dal suo etimo e capovolta, messa a testa in giù. Il fascismo che usa l’antifascismo come argomento a suo favore. Altra occasione storica, stessa tecnica: i detrattori del 25 aprile non sono pochi, e lo sono per svariati interessi tattici e politici. Anche qui, non potendo azzardare (ancora) un attacco frontale ai contenuti storici della Resistenza, fanno leva sul sentimento generico del “bene”: trasformiamo - dicono, il 25 aprile nella “festa di tutti”. Vincitori e vinti, senza divisioni. Suona bene, sembra un intento inclusivo - di “pace”. Ma che parte da un presupposto già falso: essendo (almeno sulla carta) il fascismo di quegli anni sconfitto, la festa è già di tutti: perché tutti non possiamo non dirci – antifascisti. Perché l’antifascismo è uno dei pilastri fondanti della nostra Costituzione e se è divisivo lo è sempre e solo tra chi è fascista e chi non lo è. Tra chi ha interesse a riscrivere la Storia e chi la vuole raccontare per come è accaduta. Vi è un altro modo di utilizzare il linguaggio scippandocelo. Quando proprio non si può cancellare il significato reale degli eventi, lo si attenua con l’uso di eufemismi. Un esempio, che portò mirabilmente sul palco il più grande stand-up comedian di sempre, George Carlin: c'è una condizione psicologica nel combattimento in guerra, quando il sistema nervoso di un soldato è stato stressato al suo punto massimo assoluto, e non può prendere più scosse. Il sistema nervoso al collasso. Nella prima guerra mondiale, questa condizione fu chiamata “Shell Shock”. Due sillabe, che suonano dure e brevi come il colpo di una mina che esplode. Shell Shock. Poi è arrivata la seconda guerra mondiale. E la stessa identica condizione fu chiamata “Battle fatigue”: affaticamento da battaglia. Quattro sillabe. Ci vuole un po' più di tempo per pronunciarlo, non sembra fare molto male. E "Fatica" è una parola che non punta il dito su nulla. Dopo la guerra in Corea, la stessa identica condizione, proprio la stessa, viene chiamata dagli americani "Operational exhaustion”, esaurimento da operazione militare. In inglese sono ora diventate otto le sillabe. Il senso dell’umano e del dolore cancellati dalla definizione. Passano gli anni, e durante la guerra in Vietnam, la stessa identica condizione viene chiamata "Post-traumatic stress disorder", disturbo post traumatico da stress. Il dolore è ora completamente scomparso. “Guerra di liberazione”. “25 aprile festa di tutti”. “Disturbo post traumatico da stress”. Attraverso il linguaggio, le stesse identiche cose vengono nominate diversamente, dilatate, talvolta sfigurate, in modo da rendere più digeribile per la nostra mente il loro stravolgimento. La stessa identica tecnica viene usata in questi giorni legati alla gestione dell’emergenza da Coronavirus, con l’utilizzo spasmodico della parola “Dittatura”. Per due mesi, tra mille errori e talvolta goffe dichiarazioni e approssimazioni, è però successa una cosa che non era mai accaduta da che io sono nato: la politica che antepone la salute all’economia e al profitto. Ora, proprio questa economia neoliberista che ha sulla coscienza i tagli feroci alle risorse e del personale alla Sanità, che ha schiacciato e precarizzato i diritti dei lavoratori, inquinato in modo criminoso il pianeta, finanziato colpi di stato in Sud America, questa stessa economia ora scalpita per riprendersi immediatamente la cabina di comando. Lo fa con i suoi “soldati al fronte”: Confindustria, i giornalisti, e gli intellettuali. E vuole riprendersi il comando in fretta. Magari, disarcionando il governo italiano e porvi al vertice un rappresentante ben controllabile, eterodiretto dalla finanza. Ma soprattutto, ancora una volta, usando il linguaggio. Un linguaggio che fa leva sulla legittima paura di piccoli commercianti, artigiani, operai, di quella classe medio bassa che il neoliberismo astutamente chiama all’appello quando gli serve per poi dimenticarsene a consenso ottenuto. Qual è il leit-motiv di questi giorni? L’utilizzo delle frasi #torniamoliberi e “dittatura”, legate quindi sempe alla parola piu’ prostituita e logora - “libertà”. Termini utilizzati prima a singhiozzo e ora a valanga sulla psiche di milioni di italiani già provati, esausti e impauriti dalla imminente crisi economica. I due argomenti a favore dell’uso della parola “dittatura” sono quelli delle restrizioni della libertà di movimento e della violazione della Costituzione. Ma se queste restrizioni, dettate dal preservare la salute di Tutti in un periodo di emergenza unico negli ultimi decenni - è dittatura, per paradosso è sotto dittatura ogni passeggero di ogni aereo al quale viene imposto di stare seduto e indossare le cinture di sicurezza quando l’aereo attraversa un tratto di turbolenza, forte o non forte, o in caso di problemi al velivolo? Sono dittatori tutti i capitani di questi aerei? È un complotto la turbolenza che attraversa o il danno che sperimenta l’aereo? Si sentono privati dei loro diritti, i passeggeri che non possono alzarsi? E mi domando: sarebbe una espressione di libertà se qualcuno, durante la turbolenza, invitasse tutti i passeggeri a togliersi la cintura di sicurezza e ad alzarsi per poter comprare oggetti - sull’aereo in quell’esatto periodo di tempo? Di nuovo, da sempre e per sempre, il potere neoliberista utilizza le parole praticando l’avvelenamento semantico. Sempre, nell’utilizzo della parola - libertà. Facendo leva e usando la frustrazione drammatica del piccolo commercio e artigianato, che cosa ci dicono i potentati economici, le lobby e i loro megafoni come i giornali e le tv? - “Torniamo a essere liberi”. Una frase che implica una premessa di prigionia e di punizione ingiustamente inflitta e dalla quale dover evadere. Certo che occorre riattivare, con grande cautela, l’economia. Ma quale econimia? E a quale veocita’? A quel #torniamoliberi rispondo: #torniamoumani, e ancor più: #torniamopartigiani. Perché la fuori c’è, identica a come c’era prima e proprio là dove stiamo per riuscire, una alcatraz dei diritti che ora brama per ripristinare i suoi principi inceppatisi per poco. Una alcatraz dove ad essere imprigionata non è la libertà di correre in un parco, ma una possibile visione altra del mondo. Dove i secondini tengono a bada qualunque possibile crepa di un sistema che brama il profitto come unica fede. Vi è un secondo elemento, ineludibile, per essere “partigiano” di questo sogno. Schierarsi. Aprire lo sguardo. Mettere in discussione ciò che mai, nemmeno più nella teoria, viene messo in discussione: l’intrinseco fascismo del neoliberismo. Il 25 aprile parla del presente e al presente. La Resistenza stessa è al presente. Mi rivolgo ai miei colleghi, tutti, quelli che hanno il privilegio di avere un pubblico a cui parlare. Schieriamoci ora. Nominiamo di nuovo le parole che sono le cose. Anche nella fatica della sopravvivenza, nell’arte praticata da ognuno, ora è il momento di essere – partigiani di una idea che festeggiamo il 25 aprile, ma che va difesa il 26, il 27, il 28, qualunque giorno nel quale, attraverso il linguaggio, ci viene venduta come necessaria l’idea che per vivere occorra tornare ad essere ciechi. Ciechi di fronte alla barbarie di questo sistema che sembrava immutabile ed intoccabile. Per la prima volta siamo stati obbligati a stare dannatamente soli con noi stessi. E il rumore del silenzio di quando si è soli può essere assordante. Ma questa assordante solitudine, questa drammatica possibilità di fallire è figlia legittima dei tempi che ci hanno preceduto. Iniziamo a riprenderci una voce con un respiro largo. A riprenderci questo armamento di parole che ci viene puntato contro. In questo andirivieni della Storia, che torna e semrba voler farsi beffa di noi - riprendiamoci le parole. Ribadiamo, ogni giorno, l’inascoltabilità delle loro frasi. Schieratevi, schieriamoci. Torniamo partigiani. E allora forse, anche la parola patria e la parola libertà avranno di nuovo, almeno un po’, senso. Pubblicato sulla pagina #ANPI CAGLIARI, ANPI Provincia di Cagliari e #Ioestolibero25aprile2020 |
ALESSANDRO NEGRINI
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June 2024
Alessandro Negrini
Regista per errore, poeta per caso, flaneur per scelta. |