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36

2/16/2022

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di Alessandro Negrini

Racconta lo scrittore Juan Gelman che una volta su di un bus sentì una conversazione tra due operai che tornavano esausti dal lavoro. Erano muti di stanchezza. Uno di loro, ad un certo punto alzò la testa e disse al suo compagno una cosa, piccola, semplice, feroce:
“Sai cosa mi piega più di tutto? Che ci spacchiamo la schiena, e rimaniamo poveri”.
A piegare la schiena di quei due operai era la mancanza di speranza. Speranza a sua volta piegata, lentamente e per decenni, dalle Elites ed i loro rappresentanti politici, giornalisti, intellettuali, banchieri  per i quali l’idea di lavoro come diritto collettivo alla dignità andava mutata in quella di merito e di resilienza individuale: la retorica ultraliberale, che veicola la sua brama di profitto per pochi attraverso due concetti che aborro: il criterio del merito ed il criterio della resilienza. Se non lavori, è perché non sei in grado di sfruttare le occasioni che questo meraviglioso sistema ti sta dando.
Ma la risposta a questa retorica è sulle labbra di quei due operai sul bus. Perché cosa c’è tra le cose più intollerabili di una civiltà degna di questo nome dell’avere milioni di persone che rimangono povere – lavorando -  e spesso, troppo spesso, su quel luogo di lavoro ci muoiono?

Mattarella, nel suo discorso di (re)insediamento, tra le tante cose che hanno entusiasmato i più, ha detto: “Mai più morti sul lavoro”. Bellissima dichiarazione, forte, chiara. Peccato che le sue siano - parole al vento.
Il Governo Draghi, che Mattarella un anno fa ha imposto dando una spallata ricattatoria al parlamento, proprio per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro ha abolito i controlli a sorpresa alle imprese.  Questo abominio, legittimato da tutti i partiti che sostengono il governo, dalla Lega al PD , i 5 Stelle ed ovviamente Italia Viva e Forza Italia, è presente nell'apposita delega contenuta nel “DDL Concorrenza”: "prima di ogni controllo dovrà esserci una telefonata per programmare il controllo, specificarne la natura, individuarne i contenuti e i documenti necessari, i giorni in cui arriverà".
Tradotto: eliminando l’effetto sorpresa, tutte le imprese che violano le norme non verranno mai prese sul fatto. Ovviamente, per legittimare questo invito indiretto a provocare più morti sul lavoro, il governo Draghi  utilizza un linguaggio positivo: “D'ora in poi la parola d'ordine sarà "rispetto reciproco, civiltà, gentilezza e cortesia”. "Non ci saranno divise o mitragliette in vista". Non più tutela dei lavoratori e del loro diritto a non rischiare la propria vita, ma “gentilezza reciproca”. Traduzione: io proseguo ad ignorare le norme, tu Stato sii gentile e avvisami prima di venire a controllarmi, così evitiamo di farci scoprire ed iniziare inutili procedure giudiziarie. Poco importa se uno dei costi per difendere non le persone ma il PIL sono due, tremila morti l’anno.

Se si osserva il rapporto tra ispettori e ispezioni alle imprese, già ora, un’impresa ha statisticamente la possibilità di subire un controllo sulla sicurezza una volta ogni undici anni. Tra questi controlli, oltre il 90% delle imprese edili sono risultate irregolari e non applicano le normative sulla sicurezza sul lavoro.

E come risponde il governo di fronte a tutto questo? Silenzio.
E senza pudore, lo ha detto  chiaramente l’osannato banchiere Draghi - davanti agli occhi incantati di quasi tutti i politici e giornalisti: “Io proteggo il PIL”.
I diritti, gli anziani, le persone, i lavoratori - se d’intralcio, dovremo chiudere un occhio anche sulle loro morti, liquidate con qualche parola di circostanza.
E’ l’unica ideologia, proprio di coloro che ci ripetono che non bisogna ideologizzare, ma essere concreti: l’idolatria del Santo PIL.

C’è una stretta relazione tra precarietà, salari da fame e incidenti nei posti di lavoro. Paghe orarie che fiancheggiano quelle del caporalato, da 4 euro l’ora, 5 euro l’ora, 7 euro l’ora si accompagnano ad appalti sempre al ribasso da un lato (dove per poter essere “concorrenti”, ad essere tagliati sono proprio i costi sulla sicurezza) e milioni di persone costrette o a doppi lavori, o sbattute sul luogo di lavoro senza aver potuto imparare come si usa un muletto, una stampatrice, un macchinario tessile. 
Le stime, tenendosi bassi, sono tra i 1200 e i 2000 morti l’anno. Se queste morti erano evitabili, e lo erano, allora di omicidi colposi trattasi.
Come difenderci da questa, vera (non fantomatica come quella sanitaria) dittatura di questa visione che si riassume nel “Proteggiamo il PIL”? Rileggendo la nostra Carta Costituzionale, partendo da questo:

Art. 36. Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Qualunque contratto che propone 4, 5, 6, 7 euro l’ora viola palesemente l’articolo 36.
L'Italia è l'unico paese dove in dieci anni i salari sono calati, -2,9%, persino la Grecia ha visto crescere i propri salari.
Lo sa bene l’avvocato Fausto Raffone: nelle sue cause contro lo sfruttamento sul lavoro,  si appella proprio all’articolo 36: quei contratti sono anticostituzionali, Ha vinto quasi tutte le cause. Sono contratti presenti nel registro del CNEL (in totale sono più di 900) ideati dai partiti di destra e sinistra (?)  che non hanno fatto nulla per limitarne la proliferazione.

Nessun governo italiano l’ha proposta. Mai:  la battaglia che va fatta è lottare per la legge che garantisca un salario minimo per tutti. Tutti. Iniziamo a vedere, da qui, quanto sono al vento le dichiarazioni ufficiali di lotta alla povertà.
E quando diranno, perché lo diranno – i padroni e i loro megafoni (i banchieri al governo, i giornalisti, i politici  - che mai hanno provato in tutta la loro vita salari da fame)  che occorre essere concreti, che occorre il principio del merito, che occorre essere resilienti, rispondiamo così:
“Articolo 36 della Costituzione Italiana: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa."


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Ciao Pino Pietrafitta dallo sguardo mai abbassato, per sempre evaso.

2/6/2022

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Lo conobbi nel quartiere Lingotto a Torino, credo a inizi anni ‘90. Stava su di un camion pieno di elenchi telefonici da distribuire. Mia madre, Licia, lo vide e andò da lui: “Ha bisogno di un ragazzo? Mio figlio ha bisogno di lavorare”. Io cercavo lavoro per potermi pagare le rate dell’università.  
E così dal giorno dopo mi ritrovai a far parte di questa squadra scapestrata di “addetti alla distribuzione”: quasi tutti con la fedina penale sporca, alcuni per rapina, altri per spaccio, altri buttati fuori di casa ed in cerca di soldi immediati - e uno studente squattrinato, io. Pino non ti chiedeva nulla, ti guardava negli occhi e se avevi bisogno di lavorare, ti prendeva.
 
Le consegne venivano fatte con grandi carrelli della spesa presi chissà dove.
Si guadagnava bene con le mance. All’epoca gli smartphone e Google erano ancora lontani, così come ancora a venire erano gli anni in cui gli oggetti sarebbero diventati padroni dei padroni degli oggetti.
L’arrivo nelle case dell’elenco telefonico e delle pagine gialle era una sorta di festa nei quartieri attesa da tempo: la guida telefonica era lo strumento prezioso e irrinunciabile da tenere vicino al telefono di casa. Tutti erano felici del nostro arrivo: dai quartieri popolari, dove al nostro arrivo si sentiva qualcuno urlare -”Sono arrivate le Guide!”, ai quartieri residenziali, altrettanto felici di avere il prezioso librone zeppo di nomi e numeri.
Tutti ci davano dalle 1000 lire in su, i condomini benestanti della collina o gli studi di professionisti anche 10, 20 mila lire di mancia a consegna.
Fu uno dei lavori più divertenti che abbia fatto, una fabbrica di aneddoti e accadimenti surreali.
 
Pino mi chiamava anche per altri lavori: d’estate, si andava a vendere magliette ai concerti fuori dallo stadio. Così finivamo a  Monza al concerto di Michael Jackson, o a Torino al concerto dei Gun’s Roses, sempre con un senso di allegria, come fosse una scusa per condividere tempo, aneddoti, vino. Ricordo la musica fuori dallo Stadio, e rammento che nell’ebbrezza del vino, per un attimo sperai che lo stesso Michael Jackson venisse a comprarsi la maglietta col suo volto.
 
Io e Pino diventammo amici, e frequentandoci anche al di là del lavoro, ci raccontavamo le nostre vite.  
Con un passato da impenitente contrabbandiere di sigarette tra l'Italia, la Svizzera e la Francia, Pino rimase in galera il tempo necessario per diventare comunista.
Uscito, fece una promessa a se stesso: "non ci rientro più". Mantenne quella promessa per sempre.
Gli feci una domanda che più cretina non si può: “ Ci si sta male, dentro?”. Pino, col suo sguardo che mai si abbassava, sorrise e mi disse: “Si mangia male”.
 
Una sera in un bar, con la voce roca di chi le sigarette le aveva contrabbandate ma anche fumate, mi disse - "Alessà, a te non t’acchiappa nessuno".
Non ho mai capito bene a cosa si riferisse. Ma pensai che fossimo, in modo diverso e tuttavia simile, entrambi evasi. Da quel carcere invisibile dove si è prigionieri della propria sopravvivenza, del proprio egoismo, del proprio ego: il carcere del cinico disincanto. Pino, forse senza saperlo, era già evaso da quella prigione silenziosa ed invisibile. Fuori, libero.
 
Una volta andammo alla Festa Nazionale degli alpini ad Asti. Con noi, Sandro. Bevemmo vino sino a che a sfinirci furono non solo i bicchieri, ma le risate su cose senza senso. Al mattino, Sandro era scomparso. E allora tutti a cercare Sandro, dove sarà finito Sandro, per poi scoprire che si era addormentato sbronzo proprio sotto la panchina davanti alla caserma dei Carabinieri.
Finalmente lo troviamo, mentre i carabinieri erano usciti a controllare chi fosse e come stesse. Arrivammo, con la voce roca di Pino a gridare: Sandro, ma che minchia hai combinato?
Sandro, serafico e stranito: “Non lo so, sono confuso, mi sono addormentato che erano tutti alpini, mi sono svegliato e sono tutti carabinieri…”
Era uno degli infiniti aneddoti delle nostre “avventure”, pregne della voglia di vita, e al contempo di una cosa che si praticava senza esserne consapevoli: la sensazione di essere parte di una famiglia senza limiti, fatta di tutte le persone che incrociamo, che ci chiedono aiuto, con le quali dividere l'aiutarsi, le risa, le avventure, il pane.
Una volta, parlando con lui e Sandro, dissi loro che amavo la parola “compagno”, deriva da “cumpanis”, dissi, significa condividere il pane.  Un altro amico del gruppo, ridendo, guardò Pino e disse: “Pino che sei un comunista?"
Pino lo guardo per qualche secondo, e disse: “Minchia, certo, sono comunista. Se sei povero e non sei comunista sei cretino”.
 
Passarono gli anni, iniziarono i miei lunghi anni di permanenza all’estero alla ricerca di un senso per la mia vita da evaso, prima a Parigi poi in sudamerica sino all’Irlanda.
Lo reincontrai tanti anni dopo esserci persi. Lui era rimasto identico a come lo ricordavo: un personaggio letterario, con il volto da film americano, gli occhi che incutono rispetto e la sua solita voce bassa e roca. Vendeva origano e finocchietto con un carrettino siciliano nell’antico mercato del Balon a Torino.
Mi sei stato amico, e senza saperlo padre adottivo, fraterno compagno di sbronze e complice, “compagno” di una vita sempre senza padroni e col pane da spezzare ed il vino da offrire.
Ciao amico mio. Oggi verrò a darti l’ultimo saluto. Ti guarderò e nel silenzio ti dirò:
"Pino, a te non t’hanno mai acchiappato".
 
Si chiamava Pino Pietrafitta, aveva il cuore di un gigante, mai ha avuto padroni. Gli volevo bene.

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