Lo conobbi nel quartiere Lingotto a Torino, credo a inizi anni ‘90. Stava su di un camion pieno di elenchi telefonici da distribuire. Mia madre, Licia, lo vide e andò da lui: “Ha bisogno di un ragazzo? Mio figlio ha bisogno di lavorare”. Io cercavo lavoro per potermi pagare le rate dell’università.
E così dal giorno dopo mi ritrovai a far parte di questa squadra scapestrata di “addetti alla distribuzione”: quasi tutti con la fedina penale sporca, alcuni per rapina, altri per spaccio, altri buttati fuori di casa ed in cerca di soldi immediati - e uno studente squattrinato, io. Pino non ti chiedeva nulla, ti guardava negli occhi e se avevi bisogno di lavorare, ti prendeva. Le consegne venivano fatte con grandi carrelli della spesa presi chissà dove. Si guadagnava bene con le mance. All’epoca gli smartphone e Google erano ancora lontani, così come ancora a venire erano gli anni in cui gli oggetti sarebbero diventati padroni dei padroni degli oggetti. L’arrivo nelle case dell’elenco telefonico e delle pagine gialle era una sorta di festa nei quartieri attesa da tempo: la guida telefonica era lo strumento prezioso e irrinunciabile da tenere vicino al telefono di casa. Tutti erano felici del nostro arrivo: dai quartieri popolari, dove al nostro arrivo si sentiva qualcuno urlare -”Sono arrivate le Guide!”, ai quartieri residenziali, altrettanto felici di avere il prezioso librone zeppo di nomi e numeri. Tutti ci davano dalle 1000 lire in su, i condomini benestanti della collina o gli studi di professionisti anche 10, 20 mila lire di mancia a consegna. Fu uno dei lavori più divertenti che abbia fatto, una fabbrica di aneddoti e accadimenti surreali. Pino mi chiamava anche per altri lavori: d’estate, si andava a vendere magliette ai concerti fuori dallo stadio. Così finivamo a Monza al concerto di Michael Jackson, o a Torino al concerto dei Gun’s Roses, sempre con un senso di allegria, come fosse una scusa per condividere tempo, aneddoti, vino. Ricordo la musica fuori dallo Stadio, e rammento che nell’ebbrezza del vino, per un attimo sperai che lo stesso Michael Jackson venisse a comprarsi la maglietta col suo volto. Io e Pino diventammo amici, e frequentandoci anche al di là del lavoro, ci raccontavamo le nostre vite. Con un passato da impenitente contrabbandiere di sigarette tra l'Italia, la Svizzera e la Francia, Pino rimase in galera il tempo necessario per diventare comunista. Uscito, fece una promessa a se stesso: "non ci rientro più". Mantenne quella promessa per sempre. Gli feci una domanda che più cretina non si può: “ Ci si sta male, dentro?”. Pino, col suo sguardo che mai si abbassava, sorrise e mi disse: “Si mangia male”. Una sera in un bar, con la voce roca di chi le sigarette le aveva contrabbandate ma anche fumate, mi disse - "Alessà, a te non t’acchiappa nessuno". Non ho mai capito bene a cosa si riferisse. Ma pensai che fossimo, in modo diverso e tuttavia simile, entrambi evasi. Da quel carcere invisibile dove si è prigionieri della propria sopravvivenza, del proprio egoismo, del proprio ego: il carcere del cinico disincanto. Pino, forse senza saperlo, era già evaso da quella prigione silenziosa ed invisibile. Fuori, libero. Una volta andammo alla Festa Nazionale degli alpini ad Asti. Con noi, Sandro. Bevemmo vino sino a che a sfinirci furono non solo i bicchieri, ma le risate su cose senza senso. Al mattino, Sandro era scomparso. E allora tutti a cercare Sandro, dove sarà finito Sandro, per poi scoprire che si era addormentato sbronzo proprio sotto la panchina davanti alla caserma dei Carabinieri. Finalmente lo troviamo, mentre i carabinieri erano usciti a controllare chi fosse e come stesse. Arrivammo, con la voce roca di Pino a gridare: Sandro, ma che minchia hai combinato? Sandro, serafico e stranito: “Non lo so, sono confuso, mi sono addormentato che erano tutti alpini, mi sono svegliato e sono tutti carabinieri…” Era uno degli infiniti aneddoti delle nostre “avventure”, pregne della voglia di vita, e al contempo di una cosa che si praticava senza esserne consapevoli: la sensazione di essere parte di una famiglia senza limiti, fatta di tutte le persone che incrociamo, che ci chiedono aiuto, con le quali dividere l'aiutarsi, le risa, le avventure, il pane. Una volta, parlando con lui e Sandro, dissi loro che amavo la parola “compagno”, deriva da “cumpanis”, dissi, significa condividere il pane. Un altro amico del gruppo, ridendo, guardò Pino e disse: “Pino che sei un comunista?" Pino lo guardo per qualche secondo, e disse: “Minchia, certo, sono comunista. Se sei povero e non sei comunista sei cretino”. Passarono gli anni, iniziarono i miei lunghi anni di permanenza all’estero alla ricerca di un senso per la mia vita da evaso, prima a Parigi poi in sudamerica sino all’Irlanda. Lo reincontrai tanti anni dopo esserci persi. Lui era rimasto identico a come lo ricordavo: un personaggio letterario, con il volto da film americano, gli occhi che incutono rispetto e la sua solita voce bassa e roca. Vendeva origano e finocchietto con un carrettino siciliano nell’antico mercato del Balon a Torino. Mi sei stato amico, e senza saperlo padre adottivo, fraterno compagno di sbronze e complice, “compagno” di una vita sempre senza padroni e col pane da spezzare ed il vino da offrire. Ciao amico mio. Oggi verrò a darti l’ultimo saluto. Ti guarderò e nel silenzio ti dirò: "Pino, a te non t’hanno mai acchiappato". Si chiamava Pino Pietrafitta, aveva il cuore di un gigante, mai ha avuto padroni. Gli volevo bene. |
ALESSANDRO NEGRINI
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June 2024
Alessandro Negrini
Regista per errore, poeta per caso, flaneur per scelta. |