Da sempre, ed ogni anno un po’ di più, il “25 aprile” affronta il pericolo del volerlo delegittimare, sminuire o anestetizzare dentro parole fintamente neutre come ad esempio “riconciliazione”. Quest’anno, vi è un pericolo diverso e, credo, più svilente.
Sta accadendo, è già accaduto: l’utilizzo della parola “Liberazione” in relazione alle riaperture di lunedì 26 aprile. Lo si legge nei giornali, nelle dichiarazioni di una Destra che senza vergogna strumentalizza le grandi difficoltà di tante persone che, ad alta voce o in silenzio, si lasciano abbracciare proprio da quella strumentalizzazione che di loro necessita per vivere politicamente. Tutto questo avviene linguisticamente come conseguenza di un’altra parola arrogantemente scippata dal suo contesto storico: la parola “dittatura”, applicata nella sua interpretazione più fuorviante e proto-individualista: dittatura sanitaria. “Liberazione”. Dentro la Storia, una parola potentissima, che narra la lotta concreta e ideale da parte di un popolo di liberarsi dal nazi-fascismo. Di una cultura. Di una visione contro l’umano. Usare la parola “Liberazione” in relazione alle riaperture offende la storia da cui veniamo, perché offende ciò che questa parola contiene: l’idea di un noi, uguali, uniti dentro i diritti e l’uguaglianza sociale. Dentro un fine collettivo di libertà che non sia – a scapito di altri. E allora, affrontiamolo di petto questo utilizzo pretestuoso della parola “liberazione: liberi. Da cosa? Da chi? Per chi? Questa settimana, senza aver consultato né ascoltato il comitato scientifico e in controtendenza a tutti i loro avvertimenti e indicazioni, il governo del banchiere riapre praticamente tutto. Si riaprirà sulla base di quello che è stato battezzato - “rischio ragionato”. Ancora una volta, la realtà viene mascherata dal linguaggio. Perché il linguaggio cinico-aziendale di Draghi va tradotto: “rischio ragionato” significa pensare come ragionevole un numero ampiamente prevedibile di vite ritenute sacrificabili dal sistema economico, per il bene di alcuni e non di tutti. Questa non è una “liberazione”. E’ sacrificio, previsto, di vite umane. E soprattutto inutile e controproducente, in quanto basterebbero tre, quattro settimane in più come tutti i virologi, stupefatti della decisione, ci ripetono sdegnati ogni giorno, per evitare una nuova ondata e, pericolo ancora peggiore, nuove varianti. Mi si dirà: ma anche i partigiani avevano e praticavano una loro idea di sacrificio. Certo. Ma quel sacrificio di vite umane era dentro un conflitto armato e non dentro la democrazia – e soprattutto aveva come fine - il bene di tutti. Di tutti. Non il Pil. Non il non far cadere un governo di banchieri e militari. Nessun giornalista alla conferenza stampa ha posto la domanda, ed il governo si è guardato bene dall’anticiparla entrando nel dettaglio: quanti altri morti comporta questo “rischio ragionato”, che di per sé già rappresenta un “ragionare” aberrante e, aggiungo, in contrapposizione ai principi proprio della resistenza e della Costituzione? Qual è il numero di perdite di vite umane considerato ragionevolmente accettabile? Altre 5000? 6000? 10000? E a quale cifra quel “ragionevole” diverrà irragionevole? E allora, su questo atroce ma reale presupposto, e poco dopo questa giornata dove si celebra la liberazione dal nazi-fascismo, vorrei porre il mio invito: alle categorie che domani o nei prossimi giorni riapriranno. Invito che potrebbe sembrare una provocazione, ma non lo è né intende esserlo. Parto da un post di un'artista ed amica, che esprimendosi sulle riaperture avventate, coraggiosamente finisce così: "Non voglio sopravvivere camminando, danzando sui morti". Quante volte ci siamo chiesti, studiando la storia “Come vivevano le persone comuni durante le guerre, le pandemie? Qualcuno se lo chiederà di noi, in futuro. Come vivevano gli esseri umani negli anni 2020 della pandemia globale? Da qualche parte, in qualche libro sarà scritto: vivevano col “ rischio ragionato” del sacrificio di vite umane in nome del PIL. E aggiungo: a che serve tutto questo studiare, a che serve vedere film, andare alle mostre, il celebrare la bellezza, gli spettacoli teatrali, la musica? A che serve se sperimentiamo tutto questo, come autori o fruitori, dimentichi dell’umano? A che serve se ripartiamo ad occhi completamente chiusi su ciò che è il fondamento dell’esser partigiani, essere di parte – dalla parte della giustizia per tutti e non solo del proprio personale beneficio? Abbiamo passato un anno a dire – non possiamo tornare al “prima”. E invece quello che stiamo sperimentando, in modi e forme diverse, è un forzato e lento spegnimento del senso dell’umano, delle passioni che interpretano la libertà, la dittatura, la stessa liberazione, domate e ripiegate come mero appagamento del nostro “io” da un lato, e sopravvivenza a scapito di altri dall’altro. E questo coinvolge tutte le categorie, anche quelle che dovrebbero essere da bastione culturale contro il diluvio dell’individualismo imperante. Questo nostro essere “animali dell’Io” non è stato certo provocato dal virus, ma dal fatto che già prima vivevamo – anche nei confronti dell’arte, semplicemente da consumisti e consumatori. Il Covid ha inceppato il meccanismo di produttività e consumo, ma non per questo si è riattivata la nostra percezione di un “noi”. Anzi, la reazione sociale è stata ancora più nevrotica e stiamo per essere indirizzati verso un consumismo individualista ancora più spinto, anche dell’arte e della cultura: basta che si ritorni a vivere, ad occhi chiusi, anche al costo di altre vite. L’arte, il cibo, i vestiti, il cinema, sono solo aggregati come oggetti di consumo. Mi rivolgo anche ai colleghi, agli addetti del settore culturale, quello così pesantemente fustigato da questa pandemia: l’arte è questo? Tornare alla vita, e alle sue espressioni più alte, è questo? L’arte è l’invito a scoprire che se è esistito un passato diverso, sarà possibile anche un futuro diverso. Scoprire che esiste la scelta del come vivere contro la morte e non grazie alle morti. E che la libertà che si era persa non era quella di andare al parco, al mare, in montagna, a teatro al cinema e al centro commerciale, ma la Libertà: quella che ci fa riconoscere, senza soccombergli, chi ci vuole preda degli sciacalli che, proprio del non poter andare al parco o al mare o al bar o al cinema, ne fanno strumento dell'assopimento della nostra vera addormentata libertà: l’amputazione del noi. “Liberi”, ma soli, disuniti, tutti contro tutti. Ecco da cosa l’arte ci dovrebbe liberare: dall’idea che il ritorno alla vita sia amputazione di altra vita, liberare da un nichilismo dove diventa accettabile dover morire senza sapere il perché. E allora, ecco il mio invito: sarebbe bellissimo se domani e in questi giorni, ad occhi aperti, con coraggio ed una forza tale da consentire di uscire dal carcere della libertà del PIL, tutte le categorie dicessero, scrivessero: “No, grazie, non ora. Non voglio che il mio pasto al ristorante, la danza al teatro, il film al cinema, abbia come costo la sofferenza di altre famiglie. Anche questo, per me significa essere liberi. Anche questo è stare idealmente nelle montagne coi partigiani. Sulle porte dei cinema, dei teatri, dei ristoranti, delle palestre, dei negozi: “Non voglio sopravvivere danzando sui morti”. #nonvogliosopravviveredanzandosuimorti Alessandro Negrini |
ALESSANDRO NEGRINI
Appunti, provocazioni, pinte e danze. Archives
June 2024
Alessandro Negrini
Regista per errore, poeta per caso, flaneur per scelta. |