Se esistesse come reato, il PD verrebbe condannato in tutti i gradi di giudizio: occupazione abusiva di territorio politico, il territorio della sinistra. Il PD, Partito Democratico fondato dal già distruttore de "L'Unità" Walter Veltroni, di sinistra non solo non ha più neanche l'ombra, ma nella sua storia si è distinto per il suo volere e sapere replicare lo spettro della politica americana: due schieramenti, apparentemente diversi tra loro, uno dichiaratamente di destra, l'altro altrettanto di destra, ma più presentabile, magari capace di concedere con una mano qualche diritto civile mentre con l'altra toglie diritti universali. Dalla sua nascita il PD è riuscito là dove Berlusconi aveva fallito, ottenendo obiettivi che nemmeno la destra si sognava di poter ottenere e che ha ottenuto grazie al presunto avversario: l'abolizione dell'art 18, le precarizzazioni del Jobs Act, il dimenticarsi di salari fermi da trent'anni perchè terrorizzato dal pensiero d'essere sgridato da Confindustria piuttosto che dai lavoratori, la messa in atto della visione iper-aziendalista della scuola, dove gli studenti e l'istruzione sono "menù a la carte" per le aziende che possono ordinare, e influenzare, il tipo di manodopera a basso costo che a loro servirà. Per non parlare dell'equiparazione tra comunismo e nazismo, il sostegno a tutte le guerre che piacciono agli Stati Uniti, ma sempre muti e allineati a testa china sulle occupazioni di Israele nei confronti dei territori palestinesi. Ma soprattutto il PD rappresenta oggi la difesa di una visione elitaria di una politica che sotto sotto disprezza i deboli di cui si è dimenticata in una perfetta rappresentazione della politica che difende solo più se stessa. Totalmente disinteressata a quella metà della popolazione che non vota più. E' proprio Enrico Letta a dire, dopo aver vinto le suppletive a Siena con il 70% di astensione, che la vittoria è stata "straordinaria", forse non potendo dire che l'astensione è grande alleata del PD: perchè se i dimenticati tornassero a votare un partito che li rappresenta, il suo partito sparirebbe dalle percentuali a due cifre. È Il PD che, compatto, ha votato al Senato a difesa di Renzi, con una indegna e grottesca argomentazione contro i magistrati che vanno attaccati soltanto quando alcuni di loro arrivano a scoprire il malaffare della politica e dei colletti bianchi che la finanziano (come pare evidente dai documenti dell'inchiesta Open su Italia Viva). Sembra facile oggi scandalizzarsi di Matteo Renzi, che tuttavia venne osannato e votato in massa alle primarie del PD. Oggi, Enrico Letta è la versione altrettanto feroce di quel renzismo, solo, con la faccia meno arrogante. Se fosse un farmaco, sarebbe il generico di Renzi: sembra costare meno in termini di ideali traditi, per poi scoprire che la sua direzione, quegli stessi ideali - fondanti ed ineludibili di qualunque Sinistra, li calpesta, li ignora, li capovolge. E quali sono questi principi: Ne scegliamo due, i più importanti. Uno: il principio della lotta alle disuguaglianze sociali: basterebbe elencare tutte le decisioni prese dal Governo Draghi, appoggiate con entusiasmo proprio dal PD di Letta, dal Decreto Concorrenza (che pianifica surrettiziamente la privatizzazione di tutto) alla riduzione dei fondi per la Sanità dal 2024, sino alla riduzione dei fondi per la scuola - il tutto accompagnato dal sostegno, sempre entusiasta, per l'aumento delle spese militari di 13 miliardi di euro. Enrico Letta lo ha detto durante le elezioni della presidenza della Repubblica, senza alcun pudore: il suo compito è proteggere Draghi. Non la Costituzione. Non i suoi elettori. Non i lavoratori. Ma Draghi, l'uomo della più feroce destra neoliberista e tra i più sopravvalutati (dalla stampa) primi ministri della Repubblica italiana. Ma esiste un secondo principio fondante di qualunque Sinistra degna di questo nome: il ripudio della guerra. Il PD ha tradito anche questo. In piena suggestione bellicista, senza nemmeno avere il coraggio - in primis Draghi, di dirlo chiaramente: siamo in guerra ed abbiamo deciso di abbandonare qualunque ruolo negoziatore, perché se si decide di armare una delle parti si è - di fatto - co-belligeranti. E allora, dentro questo clima innamorato dei banchieri e della guerra, chiedo ad Enrico Letta e ai suoi elettori che ne condividono i passi, di retrocedere, perlomeno, dal terreno semantico che hanno invaso: il PD è di fatto, oggi drammaticamente più di prima, tristemente, un partito di destra. Che lo dicano, con ritrovata onestà intellettuale: i Democratici per le privatizzazioni, i Democratici per la scuola asservita alle aziende, i Democratici avvocati difensori di Renzi, i Democratici muti sui salari da fame, muti sulla Palestina, sulla Siria e oggi infine, i Democratici per la guerra - sono Destra. La più infima, travestita, senza pudore alcuno, Destra. E allora, pragmaticamente, l'unica possibilità che abbiamo per la difesa di questi principi è che il bacino di voti di questo partito, indebitamente occupante un territorio non più suo, si prosciughi definitivamente. Lo dico senza alcun intento provocatorio, ma con lo sgomento nel cuore: l’avversario politico per chi è abitato da principi di uguaglianza, di giustizia sociale e di ripudio della guerra – è anche e sopratutto il PD, il Partito Democratico Italiano. Mai più voti a chi brama la guerra. Mai più voti a chi, da sinistra, brama e riesce ad essere destra. Alessandro Negrini di Alessandro Negrini
Racconta lo scrittore Juan Gelman che una volta su di un bus sentì una conversazione tra due operai che tornavano esausti dal lavoro. Erano muti di stanchezza. Uno di loro, ad un certo punto alzò la testa e disse al suo compagno una cosa, piccola, semplice, feroce: “Sai cosa mi piega più di tutto? Che ci spacchiamo la schiena, e rimaniamo poveri”. A piegare la schiena di quei due operai era la mancanza di speranza. Speranza a sua volta piegata, lentamente e per decenni, dalle Elites ed i loro rappresentanti politici, giornalisti, intellettuali, banchieri per i quali l’idea di lavoro come diritto collettivo alla dignità andava mutata in quella di merito e di resilienza individuale: la retorica ultraliberale, che veicola la sua brama di profitto per pochi attraverso due concetti che aborro: il criterio del merito ed il criterio della resilienza. Se non lavori, è perché non sei in grado di sfruttare le occasioni che questo meraviglioso sistema ti sta dando. Ma la risposta a questa retorica è sulle labbra di quei due operai sul bus. Perché cosa c’è tra le cose più intollerabili di una civiltà degna di questo nome dell’avere milioni di persone che rimangono povere – lavorando - e spesso, troppo spesso, su quel luogo di lavoro ci muoiono? Mattarella, nel suo discorso di (re)insediamento, tra le tante cose che hanno entusiasmato i più, ha detto: “Mai più morti sul lavoro”. Bellissima dichiarazione, forte, chiara. Peccato che le sue siano - parole al vento. Il Governo Draghi, che Mattarella un anno fa ha imposto dando una spallata ricattatoria al parlamento, proprio per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro ha abolito i controlli a sorpresa alle imprese. Questo abominio, legittimato da tutti i partiti che sostengono il governo, dalla Lega al PD , i 5 Stelle ed ovviamente Italia Viva e Forza Italia, è presente nell'apposita delega contenuta nel “DDL Concorrenza”: "prima di ogni controllo dovrà esserci una telefonata per programmare il controllo, specificarne la natura, individuarne i contenuti e i documenti necessari, i giorni in cui arriverà". Tradotto: eliminando l’effetto sorpresa, tutte le imprese che violano le norme non verranno mai prese sul fatto. Ovviamente, per legittimare questo invito indiretto a provocare più morti sul lavoro, il governo Draghi utilizza un linguaggio positivo: “D'ora in poi la parola d'ordine sarà "rispetto reciproco, civiltà, gentilezza e cortesia”. "Non ci saranno divise o mitragliette in vista". Non più tutela dei lavoratori e del loro diritto a non rischiare la propria vita, ma “gentilezza reciproca”. Traduzione: io proseguo ad ignorare le norme, tu Stato sii gentile e avvisami prima di venire a controllarmi, così evitiamo di farci scoprire ed iniziare inutili procedure giudiziarie. Poco importa se uno dei costi per difendere non le persone ma il PIL sono due, tremila morti l’anno. Se si osserva il rapporto tra ispettori e ispezioni alle imprese, già ora, un’impresa ha statisticamente la possibilità di subire un controllo sulla sicurezza una volta ogni undici anni. Tra questi controlli, oltre il 90% delle imprese edili sono risultate irregolari e non applicano le normative sulla sicurezza sul lavoro. E come risponde il governo di fronte a tutto questo? Silenzio. E senza pudore, lo ha detto chiaramente l’osannato banchiere Draghi - davanti agli occhi incantati di quasi tutti i politici e giornalisti: “Io proteggo il PIL”. I diritti, gli anziani, le persone, i lavoratori - se d’intralcio, dovremo chiudere un occhio anche sulle loro morti, liquidate con qualche parola di circostanza. E’ l’unica ideologia, proprio di coloro che ci ripetono che non bisogna ideologizzare, ma essere concreti: l’idolatria del Santo PIL. C’è una stretta relazione tra precarietà, salari da fame e incidenti nei posti di lavoro. Paghe orarie che fiancheggiano quelle del caporalato, da 4 euro l’ora, 5 euro l’ora, 7 euro l’ora si accompagnano ad appalti sempre al ribasso da un lato (dove per poter essere “concorrenti”, ad essere tagliati sono proprio i costi sulla sicurezza) e milioni di persone costrette o a doppi lavori, o sbattute sul luogo di lavoro senza aver potuto imparare come si usa un muletto, una stampatrice, un macchinario tessile. Le stime, tenendosi bassi, sono tra i 1200 e i 2000 morti l’anno. Se queste morti erano evitabili, e lo erano, allora di omicidi colposi trattasi. Come difenderci da questa, vera (non fantomatica come quella sanitaria) dittatura di questa visione che si riassume nel “Proteggiamo il PIL”? Rileggendo la nostra Carta Costituzionale, partendo da questo: Art. 36. Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Qualunque contratto che propone 4, 5, 6, 7 euro l’ora viola palesemente l’articolo 36. L'Italia è l'unico paese dove in dieci anni i salari sono calati, -2,9%, persino la Grecia ha visto crescere i propri salari. Lo sa bene l’avvocato Fausto Raffone: nelle sue cause contro lo sfruttamento sul lavoro, si appella proprio all’articolo 36: quei contratti sono anticostituzionali, Ha vinto quasi tutte le cause. Sono contratti presenti nel registro del CNEL (in totale sono più di 900) ideati dai partiti di destra e sinistra (?) che non hanno fatto nulla per limitarne la proliferazione. Nessun governo italiano l’ha proposta. Mai: la battaglia che va fatta è lottare per la legge che garantisca un salario minimo per tutti. Tutti. Iniziamo a vedere, da qui, quanto sono al vento le dichiarazioni ufficiali di lotta alla povertà. E quando diranno, perché lo diranno – i padroni e i loro megafoni (i banchieri al governo, i giornalisti, i politici - che mai hanno provato in tutta la loro vita salari da fame) che occorre essere concreti, che occorre il principio del merito, che occorre essere resilienti, rispondiamo così: “Articolo 36 della Costituzione Italiana: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa." Lo conobbi nel quartiere Lingotto a Torino, credo a inizi anni ‘90. Stava su di un camion pieno di elenchi telefonici da distribuire. Mia madre, Licia, lo vide e andò da lui: “Ha bisogno di un ragazzo? Mio figlio ha bisogno di lavorare”. Io cercavo lavoro per potermi pagare le rate dell’università.
E così dal giorno dopo mi ritrovai a far parte di questa squadra scapestrata di “addetti alla distribuzione”: quasi tutti con la fedina penale sporca, alcuni per rapina, altri per spaccio, altri buttati fuori di casa ed in cerca di soldi immediati - e uno studente squattrinato, io. Pino non ti chiedeva nulla, ti guardava negli occhi e se avevi bisogno di lavorare, ti prendeva. Le consegne venivano fatte con grandi carrelli della spesa presi chissà dove. Si guadagnava bene con le mance. All’epoca gli smartphone e Google erano ancora lontani, così come ancora a venire erano gli anni in cui gli oggetti sarebbero diventati padroni dei padroni degli oggetti. L’arrivo nelle case dell’elenco telefonico e delle pagine gialle era una sorta di festa nei quartieri attesa da tempo: la guida telefonica era lo strumento prezioso e irrinunciabile da tenere vicino al telefono di casa. Tutti erano felici del nostro arrivo: dai quartieri popolari, dove al nostro arrivo si sentiva qualcuno urlare -”Sono arrivate le Guide!”, ai quartieri residenziali, altrettanto felici di avere il prezioso librone zeppo di nomi e numeri. Tutti ci davano dalle 1000 lire in su, i condomini benestanti della collina o gli studi di professionisti anche 10, 20 mila lire di mancia a consegna. Fu uno dei lavori più divertenti che abbia fatto, una fabbrica di aneddoti e accadimenti surreali. Pino mi chiamava anche per altri lavori: d’estate, si andava a vendere magliette ai concerti fuori dallo stadio. Così finivamo a Monza al concerto di Michael Jackson, o a Torino al concerto dei Gun’s Roses, sempre con un senso di allegria, come fosse una scusa per condividere tempo, aneddoti, vino. Ricordo la musica fuori dallo Stadio, e rammento che nell’ebbrezza del vino, per un attimo sperai che lo stesso Michael Jackson venisse a comprarsi la maglietta col suo volto. Io e Pino diventammo amici, e frequentandoci anche al di là del lavoro, ci raccontavamo le nostre vite. Con un passato da impenitente contrabbandiere di sigarette tra l'Italia, la Svizzera e la Francia, Pino rimase in galera il tempo necessario per diventare comunista. Uscito, fece una promessa a se stesso: "non ci rientro più". Mantenne quella promessa per sempre. Gli feci una domanda che più cretina non si può: “ Ci si sta male, dentro?”. Pino, col suo sguardo che mai si abbassava, sorrise e mi disse: “Si mangia male”. Una sera in un bar, con la voce roca di chi le sigarette le aveva contrabbandate ma anche fumate, mi disse - "Alessà, a te non t’acchiappa nessuno". Non ho mai capito bene a cosa si riferisse. Ma pensai che fossimo, in modo diverso e tuttavia simile, entrambi evasi. Da quel carcere invisibile dove si è prigionieri della propria sopravvivenza, del proprio egoismo, del proprio ego: il carcere del cinico disincanto. Pino, forse senza saperlo, era già evaso da quella prigione silenziosa ed invisibile. Fuori, libero. Una volta andammo alla Festa Nazionale degli alpini ad Asti. Con noi, Sandro. Bevemmo vino sino a che a sfinirci furono non solo i bicchieri, ma le risate su cose senza senso. Al mattino, Sandro era scomparso. E allora tutti a cercare Sandro, dove sarà finito Sandro, per poi scoprire che si era addormentato sbronzo proprio sotto la panchina davanti alla caserma dei Carabinieri. Finalmente lo troviamo, mentre i carabinieri erano usciti a controllare chi fosse e come stesse. Arrivammo, con la voce roca di Pino a gridare: Sandro, ma che minchia hai combinato? Sandro, serafico e stranito: “Non lo so, sono confuso, mi sono addormentato che erano tutti alpini, mi sono svegliato e sono tutti carabinieri…” Era uno degli infiniti aneddoti delle nostre “avventure”, pregne della voglia di vita, e al contempo di una cosa che si praticava senza esserne consapevoli: la sensazione di essere parte di una famiglia senza limiti, fatta di tutte le persone che incrociamo, che ci chiedono aiuto, con le quali dividere l'aiutarsi, le risa, le avventure, il pane. Una volta, parlando con lui e Sandro, dissi loro che amavo la parola “compagno”, deriva da “cumpanis”, dissi, significa condividere il pane. Un altro amico del gruppo, ridendo, guardò Pino e disse: “Pino che sei un comunista?" Pino lo guardo per qualche secondo, e disse: “Minchia, certo, sono comunista. Se sei povero e non sei comunista sei cretino”. Passarono gli anni, iniziarono i miei lunghi anni di permanenza all’estero alla ricerca di un senso per la mia vita da evaso, prima a Parigi poi in sudamerica sino all’Irlanda. Lo reincontrai tanti anni dopo esserci persi. Lui era rimasto identico a come lo ricordavo: un personaggio letterario, con il volto da film americano, gli occhi che incutono rispetto e la sua solita voce bassa e roca. Vendeva origano e finocchietto con un carrettino siciliano nell’antico mercato del Balon a Torino. Mi sei stato amico, e senza saperlo padre adottivo, fraterno compagno di sbronze e complice, “compagno” di una vita sempre senza padroni e col pane da spezzare ed il vino da offrire. Ciao amico mio. Oggi verrò a darti l’ultimo saluto. Ti guarderò e nel silenzio ti dirò: "Pino, a te non t’hanno mai acchiappato". Si chiamava Pino Pietrafitta, aveva il cuore di un gigante, mai ha avuto padroni. Gli volevo bene. Che cos’è il potere? Il potere è impunità. E l’impunità è figlia della memoria riscritta o, peggio, dell’amnesia storica indotta.
Lo sanno bene tutte le famiglie delle vittime di stragi ed omicidi commessi con la complicità di pezzi dello Stato, che hanno subito indagini deviate, prove occultate e, spesso, la criminalizzazione delle stesse vittime, con la speranza che la polvere del tempo si accumulasse sopra le collusioni rendendole sempre più opache e lontane. E di fronte a questo infinito panorama d'ingiustizie di Stato, nella generale rassegnazione collettiva e nichilista che regna di fronte a questo lunghissimo ed interminabile elenco di impunità nelle quali ci si trova soli, dove occorre guardare? Dove cercare un filo di speranza? Personalmente, guardo a quei pezzetti di umanità abitate da un indomabile senso di giustizia e che sempre, per sempre, contro tutto, anche contro le istituzioni che avrebbero dovuto difenderli, hanno tenuto lo sguardo alzato. Tante persone singole, come Ilaria Cucchi, come le madri argentine, i parenti delle stragi neofasciste, o intere comunità, popoli. Come in Cile. Come in Palestina. E come in Irlanda del Nord. 50 anni fa accadde a due passi dall’Italia, in Irlanda del Nord, una strage per la quale mai nessuno ha pagato: Il Bloody Sunday. La mattina del 30 gennaio del 1972 nel quartiere del Bogside a Derry si muove una folla ordinata. È stata indetta una manifestazione dal NICRA (Northern Ireland Civil Rights Association) e studenti, lavoratori e anziani sono lì a rivendicare parità di diritti con gli anglicani fedeli alla corona inglese. Perché nell’Irlanda del Nord del 1972 per avere un lavoro o una casa, i diritti basilari, fa una bella differenza se sei cattolico o protestante. Per esempio, il suffragio era censitario: per avere il diritto di voto, si doveva essere proprietari di almeno una casa, o perlomeno pagare un affitto, ed avere un lavoro; i prezzi proibitivi degli immobili che portavano moltissimi giovani a vivere a lungo con i genitori e la disoccupazione, che in alcuni quartieri cattolici raggiungeva l’80 %, erano solo i principali sintomi dell’oppressione. Infine, nel sistema elettorale aveva un ruolo importantissimo il company vote, che conferiva un voto plurimo a chi fosse proprietario d’azienda: non è difficile capire da chi fosse egemonizzata la struttura economica in quel contesto, costituendo un perfetto caso di apartheid in Europa. In quella manifestazione per i diritti civili minimi e basilari in qualunque democrazia, 14 manifestanti furono uccisi dal reggimento inglese Paracadutisti che sparò contro la folla inerme. In tutta fretta fu avviata un'inchiesta che si concluse pochi giorni dopo, scagionando l'operato dei militari, sostenendo che i manifestanti uccisi erano armati e furono loro ad aprire il fuoco. Per 40 anni, la comunità di Derry, insieme ai famigliari delle vittime, ha proseguito la lotta per la verità, arrivando – grazie ad una infinità di prove trovate da loro e dai loro avvocati, ad ottenere l'apertura di una seconda inchiesta ufficiale. Derry è la città irlandese nella quale sono residente. Il giorno della sentenza della seconda inchiesta del Parlamento sul Bloody Sunday, nel 2010, ero anche io nella piazza del Guild Hall a Derry, insieme a tutta la cittadinanza, con i mega schermi a trasmettere l’esito della sentenza: Cameron, il Primo Ministro in quei giorni, inizia a parlare. La tensione nella piazza è altissima. Ricordo quel silenzio, quell'attesa pregna di caparbietà, e paura e coraggio e ostinazione. Io ero lì sia in veste di regista a riprendere, ma anche di cittadino a fianco di questa lotta, ed anche ora mentre scrivo ho un brivido a ripensare a quei momenti. Cameron inizia a parlare: chiedendo - Scusa: “Non si possono difendere le forze armate difendendo l’indifendibile”. Rammento l'applauso, fragoroso, lì in mezzo, con i familiari delle vittime che facevano il segno della vittoria. Dopo 40 anni di lotte, la verità sul Bloody Sunday viene riconosciuta: il primo colpo fu sparato da un militare inglese, e così i successivi. Nessuna delle vittime era armata ed Il governo britannico ha accettato la totale responsabilità dei fatti avvenuti a Derry in quel 30 gennaio del 1972. In totale contraddizione con la frettolosa inchiesta di 40 anni prima, tutte le vittime furono dichiarate "Vittime innocenti". Sono passati altri 12 anni da quel giorno, che fu sì una vittoria. Ma nessuno è stato condannato, nessun ufficiale, nemmeno l’unico militare identificato, «il soldato F.» che uccise cinque manifestanti nell’arco di 20 minuti. È la disuguaglianza di fronte alla legge che crea la nostra Storia e come diceva Eduardo Galeano “la storia ufficiale non la scrive la memoria, bensì l’oblio obbligatorio”. Un abbraccio, lungo e senza fine, alle famiglie e a questa cittadinanza che conosco così bene e che contro tutto, tutto, per 40 anni mai ha ceduto al lento meccanismo dell’ “oblio obbligatorio”. Questa lotta, inscalfibile ed indomabile, è da esempio per tutti noi, ovunque nel mondo: l’oblio non può essere il prezzo della pace. Da sempre, ed ogni anno un po’ di più, il “25 aprile” affronta il pericolo del volerlo delegittimare, sminuire o anestetizzare dentro parole fintamente neutre come ad esempio “riconciliazione”. Quest’anno, vi è un pericolo diverso e, credo, più svilente.
Sta accadendo, è già accaduto: l’utilizzo della parola “Liberazione” in relazione alle riaperture di lunedì 26 aprile. Lo si legge nei giornali, nelle dichiarazioni di una Destra che senza vergogna strumentalizza le grandi difficoltà di tante persone che, ad alta voce o in silenzio, si lasciano abbracciare proprio da quella strumentalizzazione che di loro necessita per vivere politicamente. Tutto questo avviene linguisticamente come conseguenza di un’altra parola arrogantemente scippata dal suo contesto storico: la parola “dittatura”, applicata nella sua interpretazione più fuorviante e proto-individualista: dittatura sanitaria. “Liberazione”. Dentro la Storia, una parola potentissima, che narra la lotta concreta e ideale da parte di un popolo di liberarsi dal nazi-fascismo. Di una cultura. Di una visione contro l’umano. Usare la parola “Liberazione” in relazione alle riaperture offende la storia da cui veniamo, perché offende ciò che questa parola contiene: l’idea di un noi, uguali, uniti dentro i diritti e l’uguaglianza sociale. Dentro un fine collettivo di libertà che non sia – a scapito di altri. E allora, affrontiamolo di petto questo utilizzo pretestuoso della parola “liberazione: liberi. Da cosa? Da chi? Per chi? Questa settimana, senza aver consultato né ascoltato il comitato scientifico e in controtendenza a tutti i loro avvertimenti e indicazioni, il governo del banchiere riapre praticamente tutto. Si riaprirà sulla base di quello che è stato battezzato - “rischio ragionato”. Ancora una volta, la realtà viene mascherata dal linguaggio. Perché il linguaggio cinico-aziendale di Draghi va tradotto: “rischio ragionato” significa pensare come ragionevole un numero ampiamente prevedibile di vite ritenute sacrificabili dal sistema economico, per il bene di alcuni e non di tutti. Questa non è una “liberazione”. E’ sacrificio, previsto, di vite umane. E soprattutto inutile e controproducente, in quanto basterebbero tre, quattro settimane in più come tutti i virologi, stupefatti della decisione, ci ripetono sdegnati ogni giorno, per evitare una nuova ondata e, pericolo ancora peggiore, nuove varianti. Mi si dirà: ma anche i partigiani avevano e praticavano una loro idea di sacrificio. Certo. Ma quel sacrificio di vite umane era dentro un conflitto armato e non dentro la democrazia – e soprattutto aveva come fine - il bene di tutti. Di tutti. Non il Pil. Non il non far cadere un governo di banchieri e militari. Nessun giornalista alla conferenza stampa ha posto la domanda, ed il governo si è guardato bene dall’anticiparla entrando nel dettaglio: quanti altri morti comporta questo “rischio ragionato”, che di per sé già rappresenta un “ragionare” aberrante e, aggiungo, in contrapposizione ai principi proprio della resistenza e della Costituzione? Qual è il numero di perdite di vite umane considerato ragionevolmente accettabile? Altre 5000? 6000? 10000? E a quale cifra quel “ragionevole” diverrà irragionevole? E allora, su questo atroce ma reale presupposto, e poco dopo questa giornata dove si celebra la liberazione dal nazi-fascismo, vorrei porre il mio invito: alle categorie che domani o nei prossimi giorni riapriranno. Invito che potrebbe sembrare una provocazione, ma non lo è né intende esserlo. Parto da un post di un'artista ed amica, che esprimendosi sulle riaperture avventate, coraggiosamente finisce così: "Non voglio sopravvivere camminando, danzando sui morti". Quante volte ci siamo chiesti, studiando la storia “Come vivevano le persone comuni durante le guerre, le pandemie? Qualcuno se lo chiederà di noi, in futuro. Come vivevano gli esseri umani negli anni 2020 della pandemia globale? Da qualche parte, in qualche libro sarà scritto: vivevano col “ rischio ragionato” del sacrificio di vite umane in nome del PIL. E aggiungo: a che serve tutto questo studiare, a che serve vedere film, andare alle mostre, il celebrare la bellezza, gli spettacoli teatrali, la musica? A che serve se sperimentiamo tutto questo, come autori o fruitori, dimentichi dell’umano? A che serve se ripartiamo ad occhi completamente chiusi su ciò che è il fondamento dell’esser partigiani, essere di parte – dalla parte della giustizia per tutti e non solo del proprio personale beneficio? Abbiamo passato un anno a dire – non possiamo tornare al “prima”. E invece quello che stiamo sperimentando, in modi e forme diverse, è un forzato e lento spegnimento del senso dell’umano, delle passioni che interpretano la libertà, la dittatura, la stessa liberazione, domate e ripiegate come mero appagamento del nostro “io” da un lato, e sopravvivenza a scapito di altri dall’altro. E questo coinvolge tutte le categorie, anche quelle che dovrebbero essere da bastione culturale contro il diluvio dell’individualismo imperante. Questo nostro essere “animali dell’Io” non è stato certo provocato dal virus, ma dal fatto che già prima vivevamo – anche nei confronti dell’arte, semplicemente da consumisti e consumatori. Il Covid ha inceppato il meccanismo di produttività e consumo, ma non per questo si è riattivata la nostra percezione di un “noi”. Anzi, la reazione sociale è stata ancora più nevrotica e stiamo per essere indirizzati verso un consumismo individualista ancora più spinto, anche dell’arte e della cultura: basta che si ritorni a vivere, ad occhi chiusi, anche al costo di altre vite. L’arte, il cibo, i vestiti, il cinema, sono solo aggregati come oggetti di consumo. Mi rivolgo anche ai colleghi, agli addetti del settore culturale, quello così pesantemente fustigato da questa pandemia: l’arte è questo? Tornare alla vita, e alle sue espressioni più alte, è questo? L’arte è l’invito a scoprire che se è esistito un passato diverso, sarà possibile anche un futuro diverso. Scoprire che esiste la scelta del come vivere contro la morte e non grazie alle morti. E che la libertà che si era persa non era quella di andare al parco, al mare, in montagna, a teatro al cinema e al centro commerciale, ma la Libertà: quella che ci fa riconoscere, senza soccombergli, chi ci vuole preda degli sciacalli che, proprio del non poter andare al parco o al mare o al bar o al cinema, ne fanno strumento dell'assopimento della nostra vera addormentata libertà: l’amputazione del noi. “Liberi”, ma soli, disuniti, tutti contro tutti. Ecco da cosa l’arte ci dovrebbe liberare: dall’idea che il ritorno alla vita sia amputazione di altra vita, liberare da un nichilismo dove diventa accettabile dover morire senza sapere il perché. E allora, ecco il mio invito: sarebbe bellissimo se domani e in questi giorni, ad occhi aperti, con coraggio ed una forza tale da consentire di uscire dal carcere della libertà del PIL, tutte le categorie dicessero, scrivessero: “No, grazie, non ora. Non voglio che il mio pasto al ristorante, la danza al teatro, il film al cinema, abbia come costo la sofferenza di altre famiglie. Anche questo, per me significa essere liberi. Anche questo è stare idealmente nelle montagne coi partigiani. Sulle porte dei cinema, dei teatri, dei ristoranti, delle palestre, dei negozi: “Non voglio sopravvivere danzando sui morti”. #nonvogliosopravviveredanzandosuimorti Alessandro Negrini Può la lotta per la parità delle donne essere usata come cosmetico storico per coprire le cicatrici del pensiero unico liberista? La risposta sembra essere – sì.
La polemica sulla sedia mancante per Ursula Von Der Leyen è l'esempio più perfetto, rotondo ed efficace di "Pink washing liberista": l’utilizzo da parte del capitalismo anche di rivendicazioni femministe, attirando l’attenzione dell’opinione pubblica e al contempo distogliendola tacendo - la cornice, enorme e ben più grave nella quale quel gesto è inserito. Una cornice che racconta l’irraccontabile, la diseguaglianza che unisce tutte le disuguaglianze: un’ Europa ed un sistema economico che chiede a colui che scandalosamente Draghi ha chiamato “dittatore di cui abbiamo bisogno”, di tenere fuori dal nostro pianerottolo - i disperati. A qualsiasi condizione. E sotto pagamento. Nostro. Se il gesto di Erdoğan è stato un modo indecoroso per riaffermare un pensiero umiliante della donna, è doveroso dire quello che si vuole tacere: Ursula Von Der Leyen è andata ad Ankara con l'intenzione consapevole, convinta e determinata, di umiliare il principio che questa Europa sembra porre all'ultimo posto nella sua scala di valori: la solidarietà e la giustizia sociale. Ursula von der Leyen è andata ad Ankara per farsi umiliare. Ma non solo come donna. Come rappresentante dei cittadini europei, facendoci arrivare un messaggio preciso: noi, in Europa, i disperati in cercano di una vita migliore non li vogliamo. E che per tenerli lontani siamo disposti a tutto, anche a pagare dittatori o rappresentanti di democrature. Von Der Leyen è anche l’esempio di una umiliazione più grande: l’ascesa al potere per le donne è consentito unicamente se la donna sceglie di abbracciare il sistema di controvalori che umilia non solo le donne, ma gli ultimi, i dimenticati, gli invisibili. Ursula Von Der Layen è andata ad Ankara per umiliarsi anche in quanto donna che ha deciso di abbracciare un sistema disumano – che include proprio quella parte di classe sociale oppressa dalle istituzioni, le donne. Un sistema che non vuole le migrazioni né la libera circolazione. E perché non la vuole? Per motivi, ancora una volta, legati alla profonda disumanità di questo sistema economico: vietare la libera circolazione è una delle condizioni per poter delocalizzare le aziende là dove il costo del lavoro è ben più basso e, soprattutto, avere una manodopera ricattabile e senza vie di uscita se non quella di accettare quei lavori con meno diritti e salari ridicoli. Se per un cittadino di qualunque Stato esiste anche solo l’ipotesi di fuggire via per lavorare a migliori condizioni, allora quella persona è meno ricattabile nel suo luogo di origine. E allora, quella speranza diventa ciò che rende un disperato, nuovamente – una persona con una piccola scintilla: il desiderio di vita migliore non ancora totalmente domato. La libera circolazione aumenterebbe la consapevolezza di condizioni migliori, e così le sindacalizzazioni. Ma il sistema neoliberista ha bisogno di popoli disperati pronti ad accettare qualunque condizione lavorativa - nei loro luoghi. Che di questa ignominia – la trattativa per negare diritti umani a milioni di persone in fuga - ne sia il mandante una donna, è un’aggravante ed una ulteriore sconfitta: una donna che ottiene il potere ai vertici per negare diritti umani ad altre donne – come le donne curde e le donne siriane direttamente danneggiate dalle politiche europee – è una conquista? Per chi? Forse proprio per quel potere neoliberista e patriarcale. Potere che promuove, agita e diffonde un’indignazione facile, veloce e limitata che fa identificare Ursula von der Leyen solo come una donna e non come una degli esecutori del programma irraccontabile: aiutiamogli a restare schiavi, delle nostre aziende, a casa loro. Alessandro Negrini Il Pub delle frasi apre quando Fiona sogna.
Appare, di notte, tra il rantolo del motore dell'elicottero in ricognizione e l’inaspettato calore d'inverno della memoria. L'arrivo al Pub delle Frasi è sempre casuale quando, girando l’angolo di un ricordo, si viene colpiti dall’improvvisa febbre del dire. Talvolta, arrivati davanti, si trovano tutte le porte ben chiuse ed occorre bussare con una mano ferma, decisa e incurante della ragione che c’insegue a dirci che un sogno è solo un sogno. Una volta dentro, al bancone, al Pub delle Frasi puoi ordinare una pinta di avverbi, di sostantivi, di verbi o una caraffa di frasi - che cominciano, la famigerata birra Incipit. I raffinati a volte ordinano i congiuntivi, una bevanda scura e densa di continuazioni profonde, ma solo se la pinta è ben spillata. Gli estroversi iniziano e finiscono la notte con gli aggettivi, che però necessitano di una spillatura lenta, dando loro il tempo di non accumularsi e di sistemarsi in giusta dose nel bicchiere, onde evitare un eccesso di schiuma. Conal, il più audace, ordina la "Ale" delle frasi d'amore. Nel Pub delle Frasi puoi narrare, trovare o perdere la frase che berrai, ogni tipo di slancio e ogni tipo di caduta in ogni tipo di bicchiere, fino all’insistente lampeggiare, quando le luci segnalano l'ultimo ordine al bar: e allora, in quel momento, si sceglie l'ultimo nome, l'ultimo verbo, qualcun altro l'aggettivo finale o mezza pinta di punteggiatura ed allora, in quel momento, dimenticando che tutto finisce e ricordando che si vive per sentirsi un noi , tutto il Pub forma e canta la sua comune, ubriacante frase della notte. Il pub delle frasi riapre quando Fiona sogna. Alessandro Negrini THE PUB OF PHRASES The Pub of phrases opens in Fiona’s dream, between the helicopter’s rotor-rattle on reconnaissance, and the unusual winter warmth of memory. Always, one’s arrival here is by chance, turning the corner of a reminiscence and smitten by the sudden fever to narrate. On occasion, when you get to the front, you'll find all doors shut. You'll need to knock with a steady, decisive hand, regardless of the sense that a dream is just a dream. Once inside the Pub of Phrases, at the bar you may order a pint of Adverbs, Nouns or a carafe of the 'Here begins" Phrases. The refined sometimes order subjunctives, but only if the pint is well pulled. Extroverts begin and finish the night with Adjectives, which however require a slow tapping, giving them time not to accumulate and to settle in the right dose in the glass, in order to avoid excess of cream. Conal, the most daring, orders the Ale of love phrases. In the Pub of Phrases you can tell and find or lose the sentence that you drink, every kind of drop in every kind of glass, until the insistent flashing lights signal the last order at the bar: one chooses the last verb, someone the last noun, someone else the final adjective or a half pint of punctuation and then, in that moment, when ones's forget that everything ends and one's remember that we live to feel a sense of "us", the whole Pub shapes and sings its own communal, intoxicating phrase of the night. The pub of phrases reopens when Fiona dreams. di Alessandro Negrini
La portata della solidarietà dimostrata nei confronti di Giorgia Meloni è quintupla rispetto a quella ricevuta da: Silvia Romano per essersi convertita all’Islam, Virginia Raggi sommersa da fango sessista solo per il fatto di esistere, senzatetto bagnati con gli idranti col beneplacito del comune di destra di Vicenza, da uno delle decine e decine di omosessuali attaccati da fascisti. Da uno, uno qualunque, delle centinaia di migranti annegati in mare. Senza nome. Senza volto. Senza telefonata del Presidente Sergio Mattarella, che sono certo da domani spenderà ore al telefono per indirizzare loro la dovuta solidarietà. Uno ad uno. Quindi, stendiamoci nella solidarietà a Giorgia Meloni e nella giusta condanna degli orrendi insulti, per dire basta all’odio – dentro una consapevolezza storica però: chi semina idee fasciste, razzismo e odio deve ricevere solidarietà, ma non può dare lezioni di solidarietà. Aggiungo che la nostra solidarietà assume sempre con più chiarezza tratti classisti: si manifesta, con enfasi, se ad essere attaccato è un rappresentante del mondo che appare, collocato nella “presentabilità” borghese, e ancor più se appartenente al PalazzoSolidarietà sfocata, invece, limitata nell’arco di un trafiletto quando va bene, ignorata quando va male – e cioè quasi sempre, se ad essere attaccato è un appartenente al mondo degli invisibili. Infine: mi chiedo, vi chiedo, ora, a Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia e alla Lega: per quale motivo non propongono, appoggiano, suggeriscono una legge che punisca l’odio razziale e di genere? La risposta la sappiamo: perché la violerebbero, per poter esistere. Solidarietà. E coscienza storica. Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano: www.ilfattoquotidiano.it/2021/02/22/giorgia-meloni-quando-la-solidarieta-e-classista/6109243/ Con buona pace di chi ha venduto l’imbarazzante agiografia di Draghi come il banchiere santo, keynesiano e mandato dal cielo, è uscita qualche giorno fa una notizia enorme, feroce, eclatante. L'entità della notizia è pari solo a quella del silenzio che l'ha avvolta: il neo Presidente del Consiglio Mario Draghi, al Consiglio europeo del 25 e 26 febbraio, avrebbe opposto un secco rifiuto all’invio di 13 milioni di dosi di vaccini all’Africa. Lo ha riferito il quotidiano Le Monde. Secondo la ricostruzione del quotidiano francese, alla proposta di Macron e Merkel di destinare le dosi all’Africa, Mario Draghi ha risposto con un secco no nonostante Paesi come Belgio, Svezia, Paesi Bassi e Spagna si fossero espressi in modo favorevole.
Nonostante quest’accusa pesantissima, su questo accadimento in Italia non è quasi volata parola. Padre Janvier Yameogo, voce del Vaticano per le Comunicazioni sociali l’ha definita “una vergogna”. Farebbe ora sorridere, alla luce di questo atto così ferocemente neoliberista, ripensare ai tanti articoli usciti al fine di costruire la narrazione del Draghi “Santo”. Se non fosse che fa piangere: eccola, la cultura del “capitale umano”, che è tale a patto che non sia d’intralcio come quello dell’Africa, perché dell’Africa il capitale che ci interessa sarà sempre e solo quello delle loro risorse. Eccolo uno degli effetti della trasformazione della politica in gestione aziendale: nel paradigma dove tutto viene trasformato in merce, dove ogni azione politica viene valutata non in ragione della sua giustizia sociale ma solo dal suo essere “performante”, non esistono più cittadini ma, al massimo, clienti da soddisfare: e i clienti, secondo una lettura opportunistica del malessere sociale, vogliono i vaccini. Ergo, urge soddisfare i propri clienti e i propri committenti, e chi se ne importa se quei 13 milioni di vaccini non arriveranno più in Africa. E allora, forse le domande sono dovute, per chi non è cliente, ma cittadino: è questa la blasonata competenza così idolatrata dai giornali? E’ questa l’encomiabile calma delle scelte decise che bramavano i commentatori politici? E questo il metro di successo dell’ideologia aziendalistica applicata allo Stato? Lasciare dietro un intero continente? La risposta è semplice: quella ora al governo è la destra liberale, in doppiopetto, che non grida e che in punta di piedi, con competenza ed autorevolezza, non perde la propria matrice generante: il lasciare indietro chi da sempre è indietro. Che affama. Che comprime diritti, lo stesso senso della solidarietà cristiana, il credo religioso al quale paradossalmente tutti loro appartengono. Sottraendo, persino l’ipotesi di sognare la dignità, perché la dignità è un favore e non un diritto, la solidarietà una futilità e non un dovere. Ma le domande dovrebbero proseguire, entrando nel tessuto istituzionale: non rammentiamo alcun passaggio nel discorso al Senato di Mario Draghi dove si ipotizzasse una accelerazione sui vaccini a discapito degli aiuti all’Africa. A quale titolo Mario Draghi ha preso questa decisione? In nome di chi? E perché nessuno gliene chiede conto? Quando e dove e chi ha deciso che questa decisione enorme facesse parte di quella “delega aziendale” con la quale gli è stato affidato il Paese? Perché non ne riferisce in Parlamento? Quanto accaduto è un atto di una violenza pregna di una sola logica, la risposta alle domande fatte sopra: l’inconfessabile dis-prezzo per chi non può avere un prezzo. In tutto questo, la stampa ignora la notizia, senza nemmeno che vi sia il bisogno che la censura le venga imposta. La ignorano e basta, in una sorta di azione pavloviana dove – quando l’argomento sono le responsabilità verso gli ultimi, ultima deve essere la notizia che loro riguarda. E’ una resa, assoluta, feroce, desolante di fronte alla cultura che i competenti chiamano dell’efficienza e che i vinti, gli invisibili, chiamano del disumano. La Storia ufficiale è abitata da tante storie invisibili e tuttavia nude. Non basta, non basterà vestirle con la perizia e la preparazione per renderle meno disumane. L’articolo è pubblicato anche su Il Fatto quotidiano www.ilfattoquotidiano.it/2021/03/12/draghi-il-dis-prezzo-competente-per-chi-non-ha-santi-in-paradiso/6129737/ Quand'ero piccolo, andavo a giocare in un campetto nel quartiere Lingotto di Torino chiamato "Karl Marx".
Una volta chiesi a colui che nella mia vita per breve tempo adottai come padre, il meraviglioso operaio Francesco del secondo piano: - "Chi è Karl Marx?" Lui ci pensò pochissimo e mi rispose così: "È un signore che ci ha detto che non è giusto rubare il tempo agli uomini in cambio del pane". Io non capii. Ma mi rimase dentro la vita questa frase, mi rimase per sempre nello sguardo e nelle vene e nelle mani, sia quando sono carezza, sia quando sono pugno chiuso verso il cielo. Oggi è l'anniversario della nascita del Partito Comunista Italiano. Riuscii a votarlo una volta, prima che coloro che oggi lo celebrano decisero di cambiarlo geneticamente. E allora alzo quel pugno antico e sempre appena nato, verso questo cielo sotto al quale la politica può essere democratica, a patto che non sia democratica l’economia. Perché nel mondo dove dire "ideologia" si fa peccato (a meno che non si celebri l'unica idolatrabile, il neoliberismo) Marx è e sarà il pensatore che più ha subito tentativi di ridimensionamento, accantonamento, infiniti tentativi di riporlo nel dimenticatoio, e tuttavia, anche oggi, la sua opera rimane viva e palpitante. E nella nascita di quel partito ci sono le storie mai narrate, i dimenticati, le lotte per coloro che contano solo se dimenticano il proprio volto, un partito nato da giganti, giganti perché parlavano non solo agli uomini dell’epoca, ma parlano ora, a noi, adesso. Il degrado è, ancora e sempre, rubare tutto il tempo della vita in cambio del pane. |
ALESSANDRO NEGRINI
Appunti, provocazioni, pinte e danze. Archives
February 2022
Alessandro Negrini
Regista per errore, poeta per caso, flaneur per scelta. |